MILANO – La parvenza e l’azione dichiarata, in questo “L’Avversario” di Emmanuel Carrère, sono quelle della lettura scenica; eppure sarebbe decisamente riduttivo considerare tale questo spettacolo, che, dopo una prima gestazione bolognese (in residenza al Teatro delle Moline), ha debuttato al Teatro Elfo Puccini di Milano dal 18 al 29 aprile 2018. Interessante, quest’escamotage, che già da subito restituisce la sensazione sospesa dei lavori in corso. In scena un collettivo – Invisibile Kollettivo alias Nicola Bortolotti, Lorenzo Fontana, Alessandro Mor, Franca Penone ed Elena Russo Arman, senza scordare Niki, attrice-cane, se mi si consente la celia, nell’accezione letterale del termine – a sperimentare una condivisione di ruoli, in cui scrittura scenica, ideazione e regia vengono egualmente ridistribuiti in un consesso di pares. Del resto come raccontare un fatto di cronaca così assurdo eppure capace di restare in piedi, senza destar ombra di sospetto, per ben diciott’anni? Impossibile non farsi domande sì, ma non è certo l’indagine furbetta del narratore onnisciente, quel che interessa qui; incuriosisce, piuttosto, il dentro la testa, che, lungi da plastici del luogo del delitto o dalla lacrimevole ricostruzione ad opera dei superstiti, s’incarica di capire, per quanto possibile, un fatto così sconcertante. Siamo lontani anni luce dai cliché di certi format televisivi.
Siamo a teatro e giustamente il Kollettivo sceglie di parlarne la lingua-madre. Come? Anzitutto svelandoci la genesi del progetto attraverso un simil gioco meta-teatrale: eccolo, in che senso l’escamotage della lettura scenica. L’irrinunciabile romanzo alla mano, gli attori, in abiti borghesi, indossano direttamente in scena i pochi accessori sufficienti a far passare, per un momento, la narrazione dalla terza alla prima persona. Basta un grembiule (insanguinato, come nel caso della Russo Arman/moglie, a significarne la brutalità dell’assassinio) o una delle evocativissime parrucche (capaci di farceli quasi vedere, i figlioletti gioiosi, evocati sempre e solo per assenza) o, a volte, anche solo una posa (come nel caso di Lorenzo Fontana, fulmineo fantasmagorico luminare a certificare il sedicente tumore del protagonista) ed ecco comparire per un’istante ora questa ora quella rievocazione comunque dal sapore spettrale. Già, perché non c’è nulla di vero nella vita di Jean-Claude Romand. “Di solito la menzogna serve a coprire una verità…”, insinua, a un certo punto, il coro/voce narrante e coscienza comune; ma qual era, seppur c’era, la verità di quest’uomo talmente ossessionatone, da sceglierla perfino come traccia al tema di maturità? Solo ombre, sembrerebbe; e poco importa se siano i ricordi delle vittime fisiche della sua mattanza o gli spettri viventi di quei superstiti, così shockati da una manipolazione così protratta e surreale, da farli dubitare perfino della loro stessa identità. Ne è emblematico esempio Luc, l’amico di vecchia data di Jean-Claude, la cui testimonianza è sempre giocata – egregiamente, da Alessandro Mor [come del resto questo può ripetersi per ciascuno dei singoli attori, di fronte alle rispettive interpretazioni] – fra lo stralunato e l’incredulo: al tal punto giunge il suo sconcerto, da cercare di arginare l’assurdità che rischiava di rovinargli addosso, provando ad auto convincersi che fosse solo un incubo, quello che gli veniva via via svelato, a tragedia consumata. Efficace, l’azione scenica – ripetuta in più d’un occasione – dei tre che gli ronzano attorno come pensieri infestanti ed intrusivi, in un crescendo ritmico capace di trascinarlo nel turbinio di domande pur legittime, ma che nessuno pare avesse mai voluto porsi.
La vicenda viene ricostruita a ritroso: l’inveniménto dei cadaveri di moglie e figli, i primi sospetti di fronte a ferite non congruenti con la dinamica dell’incendio e, quasi sincronica, la notizia dell’inspiegabile assassinio dei genitori: a 80 chilometri di distanza, ma con una singolare prossimità temporale; poi solo poche telefonate – lo sottolinea, apertis verbis, la voce narrante –, da parte degli inquirenti, per far crollare quel castello di carte, ma che aveva resistito granitico per ben diciott’anni. Inizia così, la doverosa ricostruzione non tanto della biografia, quanto del profilo psicologico evolutivo del mostro; peggio: di quell’Avversario, che altro non è se non uno dei nomi di Satana, come vien ricordato nelle parole dell’omelia funebre. Suggestiva la scena del funerale dei genitori Romand con le lugubri campane a morto a intervallare le voci del chiacchiericcio di paese sulla proverbiale irreprensibilità e trasparenza cristallina dei Romand.
Madre, padre, moglie, amante, compaesani, bidella, compagni di liceo, amici d’università… e perfino l’amato cane, solo confidente delle sue emozioni infantili: c’è spazio per tutti, nella traslazione scenica, che sceglie invece di restituirci Jean-Claude per assenza, nelle sue sole parole, direttamente in francese (perché non si tratta di un racconto di fantasia), a spezzare il buio con la loro proiezione su fondo nero. Bianco e nero: questi, del resto, anche i colori della pellicola d’antan, che sembrerebbero aver offerto a sola via di fuga a quel bambino troppo calmo, troppo studioso e troppo giudizioso per assecondare la madre apprensiva. “Spàrala grossa!”, mormora, fra sé e sé, il ragazzino del film, di nuovo colto in castagna dal solerte professore. E così deve averla pensata anche il giovane Romand, schiacciato dal peso, per lui insostenibile, della pressione sociale. In fondo non sono così importanti i dettagli di quel che ha fatto – gli attori ce li sciorinano egregiamente con ritmo serrato e arguzia garbata, ma pungente -; quel che colpisce i traduttori di questo caso di cronaca è l’orribile vacuum, che si nascondeva dietro al bluff Romand; non è un caso se quel che salvò l’amante dall’assassino fu il fatto di averne incrociato lo sguardo di svelamento e, al tempo stesso, di riconoscimento/legittimazione (in vita).
Drammaturgicamente risolutiva, è la spiazzante scena “sulle panchine”, che dà una svolta reale allo spettacolo. Fino a quel momento una certo godibile e ben fatta messa in scena, da lì in poi si trasforma in un bulino capace di lavorar per sottrazione verso l’essenziale. Quel che ci chiama in causa davvero non è tanto la morbosa prouderie verso i dettagli dell’ennesimo fatto di cronaca nera, quanto il desiderio di entrare nella testa di un uomo così irrimediabilmente chiuso in un solipsismo più segno dei tempi, che esito di una sua personalissima patologia individuale. È allora che il racconto sconfina in quei quesiti universali, che attraverso il teatro e la letteratura, riprecipitano nell’autoriflessione individuale. E chi, di noi, non ha mai provato l’agghiacciante paralisi del montaliano protagonista de “Forse un mattino andando in un’aria di vetro”? Chi [, in fondo,] non anela ad uno sguardo di autentico riconoscimento, capace di accoglienza e di perdono per quel che, in fondo, tutti noi non siamo?
Visto al Teatro Elfo Puccini di Milano, martedì 24 aprile 2018.