Teatro, Teatro recensione — 26/04/2018 at 19:11

Una Alcesti del IV secolo d.C. al Teatro Arsenale di Milano

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MILANO – Uno scritto intitolato Sulla danza dello scrittore greco di origine assira Luciano di Samosata (II sec. d.C.) costituisce per noi una fonte essenziale, insieme ad un’orazione del più tardo Libanio (metà del IV sec. d.C.), sulla pantomima (= danza, gesto in movimento, musica, canto, parola): uno spettacolo nuovo, ossia sconosciuto alla cultura greca d’età classica, di grande successo però durante i lunghi secoli dell’Impero Romano. Nella pantomima, gesto e parola, invece di opporsi, si univano, sorretti dalla musica, realizzando uno spettacolo che conquistava, divertiva, e tuttavia conservava i temi del dramma più antico e della tragedia in particolare. I pantomimi, infatti, mettevano in scena anche i miti che erano stati il soggetto della tragedia ateniese del V sec. a.C., i cui protagonisti portano i nomi di Edipo, Oreste, Clitemnestra, Medea, ad esempio. I pantomimi dovevano disporre di notevolissime capacità tecniche. Da quello che ancora testimonia Luciano, eseguivano movimenti sapienti, veloci, e doveva essere stupefacente il loro trasformismo (da un personaggio all’altro, da un personaggio umano ad uno animale, dalla rappresentazione di un essere animato ad uno inanimato, come la pietra o il fuoco), al punto che Proteo, il dio per antonomasia della metamorfosi, fu considerato, per la mania antica di voler trovare il ‘primo inventore’ d’ogni cosa, il capostipite dei pantomimi e l’inventore della loro arte. La questione naturalmente resta quale fosse il ruolo del testo in uno spettacolo tanto basato sul gesto e sulla corporeità.

 

Alcesti Teatro Arsenale

Per rispondere a quest’ultima domanda, ci può aiutare anche un documento papiraceo assai problematico, scoperto dal catalano Ramón Roca-Puig negli anni Cinquanta del secolo scorso al Cairo, che contiene, tra vari scritti, un componimento poetico su Alcesti. Conservato dapprima, insieme ad altri papiri, in una fondazione creata ad hoc a Barcellona nel 1952, questo componimento è noto come Alcesti di Barcellona. Della celebre tragedia di Euripide permane, in questo testo del IV sec. d.C. (forse V), solo ed ovviamente il mito, ossia la vicenda di Alcesti che sacrifica la propria vita per concedere più tempo da vivere al marito Admeto che sa, dopo la rivelazione di Apollo, di essere prossimo alla morte. Il mito, assai fortunato sino ad oggi (si pensi alla rivisitazione di Marguerite Yourcenar, Il mistero di Alcesti, scritto nel 1942, che si può leggere nel prezioso volumetto edito da Maria Pia Pattoni, Alcesti. Variazioni sul mito, Marsilio 2006) rappresenta un estremo ed inaudito atto d’amore; per contrasto, nemmeno i vecchi genitori acconsentono di sacrificarsi per il figlio.

Nella tragedia di Euripide, Alcesti viene infine miracolosamente riportata alla vita da Eracle e restituita a Admeto. Nel testo conservato nel papiro, invece, la donna muore, e i versi raccontano sin nei minimi dettagli i preparativi del letto funebre e gli ultimi momenti di Alcesti, mentre già i brividi della morte ne paralizzano le membra e l’oscurità reale e metaforica la avvolge. L’attenzione al corpo, alle mani che si impietriscono, ai piedi raggelati, ai gesti di supplica e preghiera, al volto che impallidisce, può suggerire che questa poesia fosse destinata ad una rappresentazione teatrale. Il testo, inoltre, intreccia i dialoghi tra i personaggi, in cui si inserisce come filo conduttore la voce di un narratore. Si può certo anche pensare che il testo fosse destinato alla sola lettura, poiché il gesto di Alcesti, in piena età cristiana, mostrava un esempio pagano, ma ammirevole, di etica del sacrificio, del martirio, dell’indissolubile amore coniugale. In cambio della propria vita Alcesti chiede infatti al marito solo eterna fedeltà e promette che sarebbe tornata, immagine incorporea, accanto a lui ogni notte, intrigando il lettore con una storia di fantasmi.

 

La performance del Teatro Arsenale a cura di Kuniaki Ida e Marina Spreafico, due attori familiari al pubblico milanese e che tra l’altro hanno in comune la formazione parigina negli anni ’70 alla Scuola Internazionale di Teatro Jacques Lecoq, si è concretizzata su proposta di Raffaella Viccei. Quest’ultima, archeologa, aveva già ideato e seguito, nel 2009, una diversa rappresentazione dell’ Alcesti di Barcellona in un luogo storicamente appropriato, il Museo sensibile del Teatro romano di Milano, allora però con un unico performer, il bravo Paolo Stoppani. Oggi si è voluta consapevolmente istituire una linea di continuità dal teatro antico di Milano (http://www.milomb.camcom.it/teatro-romano) ad uno dei teatri di ricerca della metropoli contemporanea, che compie quest’anno ben 40 anni di attività (http://www.teatroarsenale.it/): i due teatri fisicamente distano tra l’altro poche centinaia di metri, quasi a sottolineare che non bisogna dimenticare né l’uno, con la sua storia e la sua attrattività anche turistica, né l’altro, con la sua costanza d’azione, il suo incisivo carattere sperimentale ed i suoi problemi, logistici e economici.

 

 

La performance ha svelato tutte le potenzialità drammatiche dell’ Alcesti di Barcellona, cercando di penetrare nell’enigma dell’originaria destinazione di questo testo. I bravi attori della Scuola Teatro Arsenale (Veronica Del Vecchio, Greta Di Lorenzo, Ian Gualdani, Alessandro Pozza, Barbara Villa) hanno saputo rendere il succedersi immediato delle voci dei personaggi, l’intensità dei dialoghi, la fluidità dell’azione. La parola è rimasta comunque a commento dei gesti, dei movimenti, della musica (ottimo il commento sonoro di Sergio Armaroli): i corpi, nello scivolare nel buio della scena, già da soli infatti hanno espresso l’iniziale disperazione di Admeto venuto a conoscenza del suo destino; poi il rifiuto sdegnoso ed irato dei genitori davanti all’egoistica richiesta del figlio; ed infine la purezza di Alcesti, icona luminosa nel buio, circondata da un’aura misteriosa come di immagine sacra, statuaria nel proporsi con semplicità al sacrificio.

L’epilogo rappresenta il progressivo abbandono della donna all’ignoto, lo smorzarsi dei movimenti come lento valicare la soglia del regno delle ombre, l’Ade invisibile agli uomini. Un potente esordio, con la voce oracolare fuori campo del dio Apollo, immerge gli spettatori in un aura sacrale, ossia nel rito del teatro arcaico, in cui contano più le presenze dei corpi (e le loro assenze) che non gli effetti speciali. Che pure nell’antichità dovevano esserci, come ci sono oggi: ossia il gioco tra luci e ombre, a suggerire la compresenza di vita e morte nella realtà quotidiana; i sussurri della natura che partecipa degli stati d’animo degli uomini, delle loro gioie, dei loro lutti; i profumi e gli incensi che accompagnano il rito funebre e che vengono evocati dalla voce del poeta-narratore in questa Alcesti suggestivamente tradita da un papiro, come ha premesso Kuniaki Ida. Abbiamo assistito dunque ad una performance di ‘teatro’ nel suo primo significato, ossia luogo dove si guarda e si partecipa.

 

Il testo allora, qui nella nuova, fedele eppure limpida traduzione di Raffaella Viccei, diviene innanzitutto voce, ossia elemento sensibile: e per questo il narratore non sta a parte, rispetto ai personaggi, ma si integra con loro, partecipa dell’azione, e dà così anche indirettamente espressione al pubblico, come se seguisse a voce alta i suoi pensieri. Ed il pubblico, alla fine della performance, manifesta giustamente la sua commozione ed il suo entusiasmo.

L’importanza dell’esperimento del Teatro Arsenale sta innanzitutto nella rivisitazione di un testo antico raro e così diverso dai grandi classici che sono di continuo rimessi in scena, riscritti, riadattati, attualizzati; ci mostra che l’antichità ci rende più ricchi di quel che crediamo, se non ci lasciamo condizionare da pregiudizi idealistici; dimostra l’empatia tra teatro contemporaneo di sperimentazione ed un teatro antico che conosciamo pochissimo, destinato probabilmente a spazi più ristretti, come i ginnasi o gli auditori, rompendo un’immagine abusata e monumentale del teatro antico, che è molto parziale. Credo che questa riuscita performance abbia molto da suggerire proprio agli studiosi di teatro, perché rende vivo un testo poetico che è stato spesso definito ‘di scuola’ con significato vagamente peggiorativo. Invece il teatro di quell’antichità che chiamiamo ‘tarda’ emozionava, insegnava, trascinava, riprendeva miti antichissimi in una nuova luce performativa, si rivolgeva ad un pubblico che di questi miti era assetato, com’è ancora oggi, senza necessariamente disporre di testi lunghi o di ripescarli dall’abisso della storia (tra l’Alcesti di Euripide e l’Alcesti di Barcellona ci sono quasi dieci secoli!). Questa performance fa riflettere anche chi per mestiere si occupa di testi come l’Alcesti di Barcellona, curandone le edizioni, le traduzioni, i commenti: ed andrebbe proposto perciò nelle aule universitarie a chi quei testi studia con scrupolo, metodo e strumenti filologici, ma deve nondimeno porsi anche questioni di tecnica teatrale e interrogarsi sulla natura della loro perfomatività, come hanno ricordato i registi da una parte e Raffaella Viccei dall’altra nella introduzione allo spettacolo dell’Arsenale, annunciando un suo libro in corso di pubblicazione (L’anima fuggente. Riflessioni teatrali sulla Alcesti di Barcellona).

Visto al Teatro Arsenale di Milano il 7 Aprile 2018

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