Teatro, Teatrorecensione — 27/06/2014 at 16:43

L’immagine è il reale o soltanto un suo prodotto falso?

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FOLIGNO –Nello spettacolo, immagine dell’economia regnante, il fine non è niente, lo sviluppo è tutto. Lo spettacolo non vuole giungere a nient’altro che a sé stesso”. (Guy Debord, “La società dello spettacolo”).
La gente è il più grande spettacolo del mondo. E non si paga il biglietto”. (Charles Bukowski, “Storie di ordinaria follia”)

Il saggio di Guy Debord li colpì a tal punto da farne il nome della compagnia folignate come il titolo del loro primo spettacolo che viene ripreso in questi giorni dopo il debutto del 2005. “La società dello spettacolo”, quale miglior tempo per ritirarne fuori stralci, lembi, passaggi e, come hanno fatto, tappezzare la città umbra tra tartarughe e fontane indicando vie rette, bisettrice curiose, percorsi alternativi incollati da adesivi bianchi o neri, da leggere con il muso schiacciato su vetrine, da fotografare, da tenere a memoria, da tatuarsi alla prima occasione. Lo spettacolo deve ancora cominciare o, forse, è già finito, o non è mai iniziato. Lo aspettiamo come il Messia. Che alcuni danno alla parola un significato dolce e leggero di divertimento, anche superficiale e frizzante come le bollicine da prosecco.

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Bisogna chiedersi oggi, a quasi cinquant’anni dal volumetto di Debord (era il ’67) che cos’è spettacolare e che cosa non lo sia. L’autore forse avrebbe detto che tutto oggi è spettacolo, e non a torto. Ma Debord nella sua analisi, e per anagrafe e perché si suicidò nel ’94, non poté centrare la sua opera su internet, sulla deriva della televisione, pay per view e private, sugli smart phone e i nativi digitali. Le sue tesi, quindi, se hanno salde radici, oggi forse sentono il peso degli anni e di una marcata rivisitazione, ripulitura, aggiunta, ridimensionamento sull’originale. Ci si interroga non tanto su che cosa sia il reale ma su che cosa diventi una volta che è passato, triturato e centrifugato dagli innumerevoli strumenti che ci rendono sempre più virtuali (e con virtuali intendo altri e diversi e tanti rispetto all’unico che agisce nella realtà concreta) e per questo aumentati ed alimentati, esponenziali e moltiplicati.
Uno spot di questi ultimi anni che invogliava ad intraprendere corsi di lingue diceva che “chi impara un’altra lingua vive due vite”. Portiamo questa tesi nel nostro caso: attraverso la spettacolarizzazione (da non demonizzare) del reale ampliamo ed amplifichiamo le possibilità concrete, e quindi limitate dallo spazio e dal tempo e finite, del nostro pensiero, del nostro essere, del nostro andare. La connessione ci rende reperibili ad ogni latitudini, cercabili, trovabili, dentro le cose, tutte le cose che accadono. Con le antenne dritte, certo le informazioni sono frammentate e frammentarie e necessariamente superficiali e spicciole, ma il quadro generale, se si sanno usare i mezzi a disposizione, è da una parte più complesso ma anche più completo e corposo. Fa paura e destabilizza essere dentro il ciclone mentre le cose stanno accadendo ad una velocità che l’uomo moderno non aveva mai messo in pratica sulla sua pelle. La rappresentazione pura e semplice del reale sarebbe più sicura e consolatoria ma una volta in mare l’idea-progetto-pensiero prende strade e si frattura in infinite posizioni in un processo che ricorda quello della particella unicellulare in successive consecutive divisioni e moltiplicazioni. Il reale, proprio perché intangibile, non è classificabile né ingabbiabile né prendibile né collocabile.

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Quando qualcuno oggi sta annegando ci sono molte persone che filmano e fotografano ed uno solo, forse, che si tuffa per salvarlo. Importante e rivendicabile però è proprio la funzione di documentazione dell’azione, di ricordo dell’operazione, di rivisione dell’accaduto, per monito e per rivivere quel presente e farlo tornare ad essere presente in un qualsiasi momento futuro. Con l’immagine il passato non esiste più perché può ritornare a colorare e far vivere nell’oggi, e quindi ridiventare oggi, infinite volte. L’uomo controlla il tempo così. O si illude di farlo, ma proprio per la sua finitezza terrena la sua illusione si fa realtà vera.
Oggi la documentazione del reale è più importante del vivere l’attimo; se non blocchi l’istante è come se non fosse accaduto. Il video e le fotografie ricostruiscono, da parte dell’autore, del protagonista o di soggetti terzi che assistono alla rimessa in onda, una realtà da rivedere, reinterpretare, accogliere. Lo spettacolo regala non solo rappresentazione, l’esserci, ma anche quella giusta distanza per sentirsi facinorosi e tolleranti, a scelta: ci sei e non ci sei nel medesimo tempo; è l’anonimato del web. La spettacolarizzazione del nostro tempo è il nostro bisogno di fermare le lancette, è la nostra sfida alla morte, impigliare i secondi ed i minuti, le ore ed i giorni in uno scatto visto che la vita corre così ampia e galoppa così fuggitiva e furtiva. A nostra insaputa.

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La riflessione alla quale ci spinge la compagnia de “La società” è un esercizio-esperienza collettiva e privata, un passaggio trasversale per far affiorare, in una situazione di incrocio ed incontro, dinamiche personali e nascoste, in uno spazio claustrofobico, con i sensi bombardati (cuffie in testa, buio e sul video immagini riprese dal vivo in altre stanze dell’impianto) e stimolati. Sotto pressione, sotto bersaglio mobile con il cecchino che spara frasi e parabole di Debord (nomen/omen; realizzò anche un film senza immagini, un po’ come John Cage con la sua muta “4:33”) mischiando, confondendo, alterando sensazioni ed immagini. Due storie si rincorrono in questa grande scatola, massimo cinquanta spettatori (spettatori?) per replica, una struttura labirintica nella quale, non a caso, si entra attraverso una fessura a forma di vagina, partoriti in un nuovo mondo, più consapevole, sputati dentro gli incubi neri, gettati nell’ammasso criptico del reale depurato e spiegato e per questo ancora più temibile.
Nel buio, su sediole accanto a sconosciuti che non riusciamo ad inquadrare (la nostra ignoranza brancola e latita nell’ammasso-afflusso di informazioni che non riusciamo ad apprendere) e sotto il sedere riviste che alla fine si riveleranno giornaletti più o meno scandalistici, più o meno gossippari, più o meno patinati, vuoti e scialbi. Sopra il letto (ogni stanza è addobbata ed abbigliata in modo differente) di una stanza da barbie cresciuta, bambole e vodka, da Alice sensuale nel Paese dei Balocchi che poi non si rivelerà tale, fumetti e forbici e peluche, uno schermo gigante ci porta dentro gli altri mondi, le altre stanze-casette, che altrimenti non avremmo la possibilità visiva di potervi accedere. E’ il dono dell’ubiquità. Si potrebbe affermare che la contemplazione della vita altrui (è l’ossatura della pellicola “Le vite degli altri”) non permette di vivere la propria e che troppo pubblico uccide il privato. La Grande Bellezza è uccisa dall’immagine.

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Guardare lo schermo è pulito, lontano e vicino, ci fa sentire parte del tutto ma al contempo al riparo dalle brutte conseguenze imprevedibili della vita. Certo anche lontano dalle bellezze; in tv il fiore è lo stesso che nel proprio giardino ma il profumo non si può sentire. Però, visto che l’oggi è così pericoloso e vasto e incomprensibile e sfuggente, sono più i contro che i pro, e tutto è diventato più faticoso e complicato che il rifugiarsi dietro vetri e schermi di pc sembra una soluzione plausibile per combattere l’ansia della carne ed ossa. L’alienazione dello spettatore che contempla e non vive è sì solo ma anche, certamente in maniera vuota, soddisfatto perché ha a portata di mano quel mondo desiderato e desiderabile, bisogno indotto ma che lui crede paradisiaco. Il telecomando ed il mouse non solo chiudono e ci autorecintano ma anche ci salvano e proteggono, come in una campana di vetro può essere l’obiezione. Nei concerti se si guarda il maxischermo sembra di avere vicino il cantante e addirittura si vede meglio e ci si gode di più.

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Il tutto è disturbante proprio perché allucinante come il Processo kafkiano, e siamo imputati tra gli stimoli sonori, tutti da comprendere e classificare dentro schemi individuali, tra Giovanni Lindo Ferretti e Carmelo Bene, ma anche Carlo Conti e Pupo, le parole di Pasolini ricordando in poesia Marilyn e Bergonzoni ed i Radiohead, Bjork e Maurizio Costanzo, Mastroianni, Alberto Sordi e Vespa, Fiona May e Via col vento, Maria de Filippi e Cossiga, Giuliano Ferrara e le Torri Gemelle fino al “Cacciatore” con De Niro. Un mosaico, questa pappa primordiale dove stiamo, o meglio sguazziamo a volte anneghiamo altre boccheggiamo quotidianamente, in questo brodo caldo dove annaspiamo come cani per raggiungere la riva, che si sposta sempre come l’orizzonte, abitiamo con più o meno paletti o resistenze, lascività o principi morali, comunque modellabili a nostro piacimento, modificabili a seconda delle necessità del momento.

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Per questo non ci sentiamo più rappresentati da niente e da nessuno (la politica in primis), per questo l’individualismo non è più una scelta ma un modo di vivere in un mondo che ti prende per la gola bollando ogni appuntamento con la parola “evento” tutto diventa up (e forse anche app), tutto deve essere sopra sopra le righe e quindi le righe non esistono più, si saltella e si volteggia tra le presunte eccezionalità perché la normalità sa di muffa e noia, o così ce l’hanno venduta. Non siamo più protagonisti della nostra vita ma soltanto spettatori, non più cittadini ma sudditi. Ma è comunque una vita 2.0, niente a che vedere, ancora ne siamo lontani, da quella di Bradbury e il suo “Fahrenheit 451”, piena di azioni che sembrano compiute anche a chi lo osserva: prendi facebook o second life. Non siamo in una dittatura anche se il non-pensiero è più semplice del suo attivo. “La società” ci dà il senso di tutto quello stratificarsi di azioni che ci hanno fatto subire e che abbiamo accettato-bevuto in tranquillità. La parola “rivoluzione” oggi è svuotata. Sarebbe come strapparsi via un braccio. E nessuno oggi, mondo edonistico o soltanto protetto e sicuro, almeno il nostro, vuol sentire dolore.

“La società dello spettacolo” da Guy Debord. Compagnia La Società dello Spettacolo. Un progetto di Michelangelo Bellani, C.L. Grugher, Marianna Masciolini. Partitura Scenica: Michelangelo Bellani. Con: Marianna Masciolini, Michelangelo Bellani, Anna Laura Vinti, Marco Rufinelli, Caroline Baglioni. L’uomo della voce: Tonino De Bernardi. L’uomo della videocamera: Paride Cardinali. Assistente alla regia: Giulia Battisti. Organizzazione: Mariella Nanni. Costumi: Officina 34 Retròscena. Supervisione tecnica: Francesco Servettini. Spettatore partecipante: Stefano Romagnoli. Visto all’Auditorium Santa Caterina, Foligno, il 25 giugno 2014.

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