REGGIO EMILIA – Nel segno dell’eresia, postulata e altrimenti evocata, si è conclusa a metà novembre la settima edizione del Festival Aperto di Reggio Emilia, caratterizzato al solito da un articolato cartellone di spettacoli spazianti fra Musica, Teatro, Danza, Performance, più altri appuntamenti di carattere artistico e culturale secondo l’accurata organizzazione de I Teatri di Reggio Emilia: vivace e valente istituzione (una volta tanto) che ha da poco rinnovato il mandato di direttore artistico al regista e autore Gabriele Vacis sino al 2017.
Festival Aperto virato su tematiche e figure eterodosse, quindi, nel pieno di un’era – qual è invece l’attuale – di propagandata ostilità nei confronti delle ragioni del dissenso, passibili di turbare pratiche e nondimeno estetiche di una classe politica e dirigente uniformata ai dettami del mercato e di un sempre più Interno – e perciò nascosto, astratto, tangente all’opinionismo – Prodotto Lordo nazionale.
Per chi vara una manifestazione su temi e soggetti “non allineati”, allora, inevitabile l’incontro con il quarantesimo anniversario della scomparsa tragica di Pier Paolo Pasolini: incendiario e sfaccettato artista, scrittore e cantore di una critica senza sconti della cultura dell’Italia del dopoguerra e del suo specioso benessere, di cui era riuscito a leggere anzitempo le derive verso «’n immondezzaio» povero di prospettive ricche spiritualmente e dense di vicendevole amore fra le persone.
Un clima di inaridimento e desolante dispersione del paesaggio umano che, non a caso, emana dalla messinscena di Corpi eretici – Dramma musicale pasoliniano in 9 canti, composto ad hoc da Mauro Montalbetti per la scrittura drammaturgica e la regia di Marco Baliani. Un’atmosfera che esala fin da subito dal paio di creste rocciose, d’un terreo grigiore biancastro, che sbalzano sul palcoscenico disseminato di abbandonati fogli di giornale, mentre ancora devono prendere posto – sul soppalco retrostante – gli orchestrali dell’Icarus Ensemble diretti da Francesco Lanzillotta.
Sulla ribalta si trovano già in fila sette Ragazzi di vita contraddistinti da fremiti sottopelle e da una gestualità inquieta che, nel corso dell’opera, proromperà spesso in movenze danzanti nel fare «du’ tiri» a pallone (con palla o senza) e in vitalismi espressivi da ghenga sbandata che parla in un umoroso romanesco. La musica inizialmente diffonde note dal piglio allegro e popolare che fa da sponda o controcanto all’ansia di vaghe intensità esistenziali espresse da costoro, intenti a liberare ricorrenti dinamismi da un lato all’altro del palco, inframmezzando cori da tifoseria o da brigata all’assalto di un tempo e di una vita da «arraffa’» senza indugi e scrupoli di sorta.
La figura raddoppiata di Pasolini irrompe a inquadrare da due angolature tale tranche giovanile sprigionante energie rigogliose e, tuttavia, fragili al cospetto di un mondo contemporaneo capace di imbrigliarne il fervore e, soprattutto, il potenziale evolutivo dentro le maglie di una realtà edificata sull’aridità produttivista di cemento, fabbriche e conquiste consumiste in cui tenersi occupati e sazi, senza più altri orizzonti al di là del proprio esclusivo appagamento a portata di mano.
Da un lato il letterato ha le sembianze possenti e la voce integerrima del tenore Mirko Guadagnini, dall’altro le fattezze esili e il recitare scandito dell’attore Marco Manchisi. In mezzo, si inseriscono due presenze femminili differenti: una ha i tratti fanciulli e la mobilità eterea della performer Chiara Taviani che appare, scompare e si muove a incantare muta Ettore, uno dei sette ragazzi interpretato da Carlo Massari; l’altra ha il volto teso di maturità e fatiche della soprano Cristina Zavalloni che, inizialmente, incarna una mamma popolana attenta al soldo e a portare a casa la giornata senza troppi grilli per la testa, dopodiché assume vesti e pose di madri ieratiche e afflitte da perdite affettive, modulandone il dolore su canti di tenuta tagliente.
Venti drammatici d’altronde s’alzano presto su brezze di violino, colpite da xilofoni, a fare presagire scenari cupi di smarrimento – sostenuti da vari adombrarsi luministici – fino all’incontro fatale con la morte. La quale investe giocoforza il Poeta, che con ostinazione rivendica una sua necessaria solitudine da eresiarca (per l’appunto) in opposizione a una massa d’individui indifferenziata, indotta dai riti omologanti ed edonisti del moderno consumismo affarista. Ecco perché, ad esempio, i ragazzi si muovono sempre in ranghi compatti, interrotti soltanto dalle apparizioni dell’anzidetta fanciulla: la quale sottrae loro le attenzioni del giovane Ettore, grazie alla sua spontaneità volta al gioco innocente della scoperta e delle rincorse di elettive affinità tra diversi.
Ed è la Vis spiazzante di chi non fa parte, la carica attrattiva di chi – in virtù di una siffatta singolarità – è ai margini, agli angoli della Storia e della Società che, di conseguenza, può creare moti centrifughi ed eccentrici in grado di scardinare l’incistarsi della regola normalizzante che tutto tende a omogeneizzare e conglobare, col rischio di irrigidire e atrofizzare in una viziosa circolarità. Chiara Taviani, non per nulla, si posiziona spesso ai lati del palco, entra ed esce dagli angoli del fondoscena presidiandoli di frequente, non parla né canta mai. Pur senza voce (neanche avesse diritto di parola e ragioni), si appropria però della palla con cui giocare la partita dell’esistenza destando curiosità e, quindi, stupore: il quale la sospinge a porsi verso gli altri con la voglia di osservarli e scoprirli nel loro semplice esporsi rispetto alle trame d’ineludibili condivisioni del Vivere.
Del resto è sempre lei – sorta d’Ariel di lieve terrestrità, volante dappertutto – a far sì che, sul metaforico set rievocativo di certe mitiche pellicole pasoliniane, il personaggio di Edipo sveli a se stesso la verità su chi è in realtà. Risuona bronzeo allora il «chi veramente sono?» di quest’ultimo, cantato da Guadagnini nel distendersi di una striscia di luce gialla al suolo, e nell’addensarsi di meste note basse dell’orchestra. Si genera una significativa sospensione che isola la domanda come fosse rivolta a tutti gli astanti, a tutta la comunità presente nell’agone spettacolare: ovvero, chi è davvero ognuno di noi in questo sconvolto mondo in cui «nessuna cosa, più niente è al suo posto»?
E meno che mai è al suo posto – le recenti cronache internazionali lo dimostrano – l’essere umano odierno, espropriato progressivamente di traiettorie e destinazioni pregne di costruttivi e pacificanti sensi nel corrente «deserto del reale» (per dirla col filosofo Zizek più che coi fratelli Wachowski di Matrix). La musica assevera un assunto del genere, assembrando di seguito un vorticare sonoro di corde e fiati veloci, trafitti da sferzate di batteria e altri inserti strumentali; mentre sul palco s’assiste allo sfaldarsi della gang in brutali calci di disordinata cattiveria a dei fogli di giornale sventagliati nell’aria da invisibili folate: quasi fossero quelle dissestate della psiche collettiva diffusa e confusa, al contempo, dai mezzi d’informazione giornalistica. Poco discosto a terra si contorce e sussulta il corpo prossimo alla fine del Pasolini, incarnato da Manchisi, all’infrangersi di tali dissennati tiri feroci nel e a vuoto. E lì, pertanto, provando a declinare la questione sollevata prima da Edipo, vien fatto di chiedersi chi è e cos’è a morire «veramente» al di là di quel che si vede.
Il Corpus pasoliniano no di certo, se dopo quarant’anni si è ancora qua a dibatterne e in un qualche modo a proseguirne il lascito e le implicazioni artistiche e culturali, politiche ed etiche rispetto al Presente complesso che si vive. E di sicuro le sue scomode spoglie ce le avremo fra i piedi per parecchi decenni ancora.
Noi, invece, che vogliamo fare affinché le nostre opere, e quanto seminiamo nel tempo che ci è dato, diano autentico frutto e rigoglio al Divenire di cui si è comunque parte attiva e in causa?
Ci basta l’effimero della rappresentazione sociale di oggi a suon di modaioli selfie – come accade nello spettacolo – e d’esibizionismo fanfarone, meccanico e discinto per vendersi alfine «ar mejo offerente»? in luogo di darsi piuttosto al meglio di se stessi sospinti da una verace fame d’amore, che ci sostanzi del sentito sostegno altrui, similmente a quella invocata dal poeta protagonista?
Sono interrogativi che il finale, a partire da un solitario esprimersi di tromba, pare vibrare nascostamente tra le pieghe del suo svolgersi dolente, sino a un pittorico concludersi nell’aura di una sacralità antica che rimarchi e illumini l’urgenza essenziale di simili domande.
Corpi eretici
Dramma musicale pasoliniano in 9 canti.
Musica | Mauro Montalbetti.
Libretto, regia e luci | Marco Baliani.
Direzione musicale | Francesco Lanzillotta.
Scene e costumi | Carlo Sala.
Interpreti | Cristina Zavalloni (soprano), Mirko Guadagnini (tenore), Marco Manchisi (attore); Coro di attori/danzatori: Chiara Taviani, Alessio Damiani, Liber Dorizzi, Massimiliano Frascà, Carlo Massari, David Marzi, Mirko Paparusso, Filippo Porro; Icarus Ensemble: Andrea Medici e Mirco Ghirardini (I e II clarinetto), Franco Fusi (fagotto), Fabio Caggiula (tromba), Gianluigi Paganelli (tuba), Lorenzo Munari (fisarmonica), Maria Chiossi (arpa), Gabriele Genta (percussioni), Paolo Ghidoni e Alessandro Ferrari (I e II violino), Luciano Cavalli (viola), Andrea Cavuoto (violoncello), Marco Forti (contrabbasso).
Produzione: Fondazione I Teatri di Reggio Emilia.
Nuovo allestimento, prima rappresentazione assoluta: Reggio Emilia, Teatro Cavallerizza, 30 ottobre 2015.