Una luce tricolore, una bandiera italiana creata con i colori dei proiettori, un palcoscenico disadorno su cui agisce la voce e il corpo di Saverio La Ruina, immerso in un’amosfera dove emerge dall’oblio, una delle tante storie tragiche e dolorose che hanno visto soffrire gli italiani, anzi gli “Italianesi”: il titolo del suo monologo scritto e interpretato da un attore dotato di un’abilità più unica che rara, quella di saper illustrare con la sola forza della parola, eventi, vissuti, storie e testimonianze, traslate dal senso dell’udito a quello della vista. Sulla scena, ombre emergenti da un passato storico in grado di svelare verità taciute per viltà, ignoranza, dimenticanza. Sono gli Italianesi reclusi in campi di concentramento in Albania dopo la fine del secondo conflitto mondiale, ostaggi di una dittatura che voleva vendicarsi sull’Italia. I figli nati in Albania e una volta rimpatriati i soldati italiani in patria, verranno internati insieme alle loro madri.
Passeranno 40 anni senza saperne più nulla. La Ruina sceglie una di queste vittime, uno dei figli di un italiano e dando la voce al protagonista crea una sorta di amplificazione a cui si vanno ad aggiungere altre storie, si moltiplicano fino a diventare un racconto corale in grado di passare dal semplice io in tanti noi. Avanzano compatti e ti fanno venire i brividi per la potenza espressiva nel descrivere storie dolenti e toccanti. La bravura di questo attore è nella sua essenzialità drammaturgica e scenica, scevra da artifici inutili, c’è solo la narrazione a riempire il teatro, dove il confine tra palcoscenico e platea viene annullato dalle emozioni che circolano e arrivano direttamente al cuore degli spettatori, catturati dall’intensità emotiva che La Ruina sa esprimere. Lui racconta la storia di un uomo a cui da un’inflessione dialettale appena percettibile: quello calabrese come lo è lo stesso attore. È la storia di Tonino che non ha mai visto l’Italia ma sa la nostra lingua e l’accento calabro gli viene dai racconti di un uomo internato come lui. L’oralità delle storie ascoltate ha fatto si che lui stesso apprendesse l’idioma nostrano. Storie di vita che si tramandano come nell’antichità quando c’era solo la voce umana come mezzo di trasmissione e conservazione della memoria collettiva. Lui sarto come era il sarto calabrese che gli raccontava di un’Italia sognata e desiderata.
Il testo di La Ruina assume una fisicità espressiva che rende bene la drammaticità di tutta la narrazione che scorre via senza pause o cedimenti. Italianesi colpisce per la denuncia sociale capace di raccontare una storia iniziata nel 1951, quando Tonino nasce e vive per quarant’anni nel mito del padre mai conosciuto, e dell’Italia che conoscerà solo nel 1991, a seguito della caduta del regime. Riconosciuti come profughi dallo Stato Italiano, questi Italianesi che sono sia albanesi che italiani, rinchiusi prima e poi discriminati, arrivano sul suolo italiano in 365, convinti di essere accolti come eroi, ricevono un trattamento tale da essere definiti italiani in Albania e albanesi in Italia. Non sono nessuno. Saverio Ruina si avvale delle musiche di scena eseguite dal vivo da Roberto Cherillo, occultato dietro un fondale, e l’atmosfera intimistica delle luci di Dario De Luca. La presenza scenica del protagonista fa il resto, con il suo incespicare per via di un piede zoppo aiutato da una sedia, l’unico oggetto presente sulla scena. Il corpo fisico e mentale, ferito e insultato, il corpo di un Italianese in cerca di una identità che si svela nel suo dipanare una matassa di micro storie che si intersecano, si mescolano, sempre con il porsi in ascolto verso il pubblico, senza enfasi, senza retorica. Lo fa con una discrezione e umiltà che non può che commuovere e far pensare ad un’Italia migliore di quella che è.
Italianesi
di e con Saverio La Ruina
musiche originali eseguite dal vivo da Roberto Cherillo
disegno luci: Dario De Luca
organizzazione: Settimio Pisano
produzione: Scena Verticale
con il sostegno di MIBAC | Regione Calabria
Visto al CRT di Milano il 2 febbraio 2012