BRUSIO (Svizzera) – Di questo pezzo di Svizzera restano impresse le montagne buttate addosso, dalle cime innevate e i rigagnoli a cascare inavvertitamente, selvaggi, da un costone di roccia, non arginati. Nelle gole, tra giganti che si fronteggiano, case ammucchiate strette come rifugi, abbracci reciproci protetti da madre terra. Restano impressi i profumi di marmellata casereccia, ad allietare conversazioni e incontri che nel luogo teatrale diventano automatici, viscerali quasi, a unire genti di culture distanti, sconosciute eppure reciprocamente in ascolto nella comprensione collettiva evocata dal palco.
Circondario confinante rende in sembianze le caratteristiche dell’apprendimento teatrale conseguito a bottega e riproposto in strutture artigianali. Un tema, la ricerca sul territorio (che del tema è nutrimento sociale e umano), il mutamento sensibile degli stati (per chi agisce e per chi vede), la tecnica ricamata e la fuga ineccepibile dal rigore formale. Una prima. In assoluto. Un debutto. A culmine d’una strada perseguita a imparare il mestiere. Con studi, formazione, contatti, prese dirette e l’attitudine al creativo non ammiccante, benché riconoscibile in maniera e discipline codificate.
E mentre altrove è un valzer di servetti e ballerine, qualcuno continua a fare teatro. Sentendosi dire di non essere appartenente al gran circo. Di “doverne ancora mangiare di pane duro”. Di arrivare dopo i gran senatori di scene e marchette. Di “dovere dare conto”, come si trattasse di una camurrìa di ripartizione zonale.
E’ in questi contesti che il teatro assurge agli scopi più profondi per cui esiste ed è sempre esistito. Un teatro per la cittadinanza.
Terra di contrabbando la Valtellina. Terra di confine. Di fratture sociali nette e rigori legali astratti all’effettivo sussistere. Così che il contrabbando fu pratica tollerata. Addirittura necessaria. Antidoto alla carestia e all’esproprio statale di mezzi economici. Una sorta di autarchia proletaria.
La scena si fa risonanza mostrando, non incidendo didascalicamente. Con l’eufonia del rimando, del metaforico, dell’approdo per associazione mentale e immaginifica. Un’attrice trasformata in una vecchia zia a colloquio con invisibili nipoti… la mimesi in pelle altra a rendere il gesto eseguito in espressione spontanea, a trasferire l’attenzione, alla parte, in gioco d’illusioni audiovisive assottigliando il duale finto/sovrapposto, l’interposizione di inserti mnemonici a spezzare unità lineari e annodare, variegando, registri, scene, ambienti. Meglio se assemblati con maggiore rodaggio, gli inserti.
La scenografia è già un immergersi in simbolici sospesi in cui entrare senza parole. Delle cassette di legno – quelle per portare la merce… – a fare da scaffali, credenze, mensole per oggetti feticci e funzionali all’utilizzo plastico. Un tavolo di cucina, un tappeto sotto, persiano, enorme, a simboleggiare un agio raggiunto oltre che decorare esteticamente la scena. E voce, d’attrice, e linguaggio artificioso del corpo scenico. Non espansivo, non edulcorato, non autoerotico. Ma essenziale alla comunicazione, al fare comune. Comunicazione d’arte, sul palco. Atto fisico e psichico.
Storie in cui proiettarsi. In cui rivedersi come in foto ingiallita. Microcosmo per dire di dinamiche relazionali senza etichetta geografica o di sorta.
Lentamente. La lentezza del gesto oltre il frastuono e le cacofonie dell’attuale bombardamento mediatico. Che ci fa tutti nascosti dietro uno schermo a scegliere una comoda vita barricata da cancelli elettronici. Da cui fare entrare chi vogliamo, chi ci fa comodo, chi ci serve. Dimenticando che la vita è altro e altrove. Dalle scelte facili, dalle comunanze ipocrite e virtuali, dai “like” e dai “tag”. Altrove dagli avatar.
Circondario Confinante
Produzione e testo: Compagnia inauDita
Regia: Begoña Feijoò Fariña
Con: Chiara Balsarini
Disegno luci e tecnica: Andrea Borzatta
Collaborazione artistica: Bernard Stöckli
Visto a Brusio (grigioni italiano – Svizzera), in spazio Casa Besta il 23 aprile 2016.