BOLOGNA – “Come son belli quegli uccelli che volano.
Perché li uccidono? Un uccello non ha scampo quando vola.
È crudele uccidere chi non ha scampo”. (Norma Jean Baker, “Senza scampo”)
“…tu sorellina più piccola, quella bellezza l’avevi addosso umilmente, e la tua anima di figlia di piccola gente, non ha mai saputo di averla, perché altrimenti non sarebbe stata bellezza”. Pasolini ci ha indicato la via per conoscere le pieghe di quello sguardo biondo fuori dal tempo, di quella leggerezza vana come bollicine dietro la quale si celava tutta la disperazione, la non accettazione, il sentirsi sempre altrove e quell’altrove, comunque, era fuori dal coro, fuori dai giochi, sola, inascoltata, svuotata. Marilyn rimane un caso, non tanto giudiziario, che quella è roba per giallisti, complottisti e dietrologi, quanto umano, sociologico. Aveva ottenuto tutto e niente poteva bastare a colmare quel buco nero d’affetto.
Il docente universitario, regista e critico teatrale Giuseppe Liotta (editi in questi giorni l’antologia di recensioni scelte dal ’68 al ’91 “Lo stupore e lo sguardo” e il testo del suo nuovo spettacolo “Maria Pascoli una storia segreta”) riprende la sua versione di “Marilyn”, a cinquant’anni dalla morte della diva, per la seconda volta, facendo a brandelli la sua prima, contorcendo elementi, facendo esplodere nel bianco nuvola d’intorno, dove si esaltano scarpe rosse e sul fondo celluloide nera a fili, una classica Marilyn, che tutto era tranne che una donna Norma(le), nel suo vestito d’ordinanza, raffigurata così anche al museo delle cere, e capelli platino. Il mondo la voleva così e lei così è stata.
C’è un doppio binario da seguire: il racconto in presa diretta e quello post mortem, il presente nell’attimo dell’essere vissuto e il ricordo di sé, con tenerezza ormai liberata, purificata, leggera come una mongolfiera che finalmente lascia e lancia a terra le sue zavorre ripiene di incudini. Della vamp se ne scorgono i limiti ed i contorni, la voce vacua e lievemente stridula, finta bambina, ma si intravede, nelle parole del poeta Gregorio Scalise (testo dell’88) e nella messinscena di Liotta, pesante e corrotto quell’abisso pece che inghiotte e trascina.
Non possiamo non essere dalla sua parte. Il nemico fuori e dentro è nel suo specchio, lì a guardarla. Fondamentali i chiaroscuri delle luci che scarnificano il pavimento in tante zolle-scaglie, in un paesaggio lunare dove sembra difficile poter rimanere in piedi, in un equilibrio fragile, prezioso e pericoloso tra rovinose cadute e voli pindarici. Luci che segnano cerchi, recinti di ring concentrici dove, a seconda che la protagonista sia dentro o fuori, vivono, si animano, si agitano e agiscono, Marilyn differenti. Potremmo dire lo sdoppiamento tra Norma, Dottor Jekyll, Marilyn, Mister Hyde. O viceversa. Niente ha importanza nel suo tentare di sopravvivere, in un mondo di squali, iene e avvoltoi, perennemente spaventata e offesa, insicura e indecisa, ma sempre col sorriso di cera richiesto dai flash freddi, dagli uomini che l’hanno presa invece che compresa.
La giovane Martina Valentini ben riesce a renderci una Marilyn sballottata, invasa, conquistata, merce, spostata, in balia degli eventi, sempre sul filo di lana, schiacciata dal suo personaggio, mai presa sul serio fino in fondo, che corre verso l’autodistruzione. Gli eroi son tutti giovani e belli. Partecipiamo al suo vortice nebuloso in una commistione solidale di vicinanza, l’insonnia, l’ansia, l’angoscia, i suoi due lati, troppo leggera fuori, troppo pesante dentro, che confliggono, fanno scintille, attrito, pressione fino all’implosione. Il mondo aveva bisogno di Marilyn, il mondo ha sempre bisogno di trasformare altre Norma in altre Marilyn da friggere sull’altare della consolazione della normalità.
Vittima sacrificale di un sistema che necessita di voci ai margini che rinsaldino i valori borghesi, che esalta gli eroi per poi metterli al tappeto, succhiarne le energie positive e renderli stracci e schiavi di quello stesso circo(lo) che li ha messi in moto, comprati e poi venduti.
Ancora PPP: “…ma tu continuavi ad essere bambina, sciocca come l’antichità, crudele come il futuro, e fra te e la tua bellezza posseduta dal potere si mise tutta la stupidità e la crudeltà del presente. Te la portavi sempre dentro, come un sorriso tra le lacrime, impudica per passività, indecente per obbedienza. L’obbedienza richiede molte lacrime inghiottite. Il darsi agli altri, troppi allegri sguardi, che chiedono la loro pietà”. La sua morbidezza non le ha fatto da paracadute, non è stata abbastanza per attutirne la caduta, per ammortizzare la vita.
“Marilyn, 5 agosto” di Gregorio Scalise, con Martina Valentini, regia di Giuseppe Liotta. Assistente alla regia e fonica: Caterina Todaro. Alle luci Paola Perrone. Organizzazione Elena Bastia. Produzione Compagnia teatrale Trame Perdute. Visto ai Teatri di Vita, Bologna, il 16 maggio 2014.