MADRID – Non è facile definire il senso di un’azione scenica che intenzionalmente si pone come asemantica, il cui operare procede come ‘materia’ teatrale, sonora, luminosa che si autogenera senza un programma narrativo. Sì perché lo spettacolo “Kowloon”, di Berta Delgado e David Aladro-Vico, pur sfuggendo ad ogni catalogazione di genere – happening o performance paiono ormai desueti – ed evitando accuratamente di costruire una qualsivoglia dimensione contenutistica, nello stesso tempo ha la grande capacità di tessere trame, di definire atmosfere precise, dimensioni emotive, vuoi conflittuali, di oppressione o di smarrimento, finanche di costruire storie. E’ un labirinto di suggestioni, nelle quali lo spettatore è come lasciato libero di costruire un suo personale itinerario interpretativo, mettendo insieme il puzzle di sensazioni, visive e sonore, che si affastellano a ritmi alterni nell’evolversi della rappresentazione.C’è un sapiente uso del buio, da cui emergono, prima indistinte e poi via via più definite, le sagome degli esseri di questo mondo/pianeta; quindi di fasci e squarci luminosi, luci colorate, rosse, arancioni, blu.
La visione è così regolata da questa dialettica di luce e buio e la ricezione sonora da quella di silenzio e sonorità; sonorità fatte di clangori, sibili, suoni concreti, del quotidiano ed elettroniche. Così l’ambiente in cui si muovono i tre personaggi alterna momenti di vuoto ad altri in cui si creano ambiti più o meno oppressivi, con teli che si muovono costantemente: cunicoli, antri. Quindi, giochi di veli azionati da artigianali macchine teatrali e poi proiezioni, su un tulle di fronte alla scena, di meccanismi casuali di oggetti che ruotano in una scatolina: c’è un gusto quasi barocco con l’intenzione di stupire, con la fascinazione di continue sollecitazioni.Se da un lato abbiamo pura materia scenica – gioco combinatorio di luci, movimenti, suoni – dall’altro, quello del pubblico, si delinea il reticolo di una complessa ricerca di senso o di una labirintica plurivocità di sensi: atmosfere post-atomiche, di un diffuso senso di angoscia e di oppressione, di ricerca di vita da una situazione densa di incertezze…
Con una partitura scenica definita in maniera precisa, indeterminatezza e casualità, rrompono sulla scena e sono la cifra di un progetto rigorosissimo: a nostro parere costituiscono la chiave di lettura di un labirinto di storie possibili, che restano sullo sfondo come orizzonte. Un progetto che in definitiva sancisce in maniera risoluta la priorità, superlativa, del dato artigianale e materiale, dell’agire e dell’operare della materia scenica, come qualcosa che si presenta come dotato di vita propria. Spunti di riflessione su destino e casualità sono dietro l’angolo e, dalla scena di Kowloon, possono aprire il varco ad ulteriori disanime: sicuramente è questa la grande capacità e il fascino enigmatico di questo spettacolo
Visto al Kolmanskop Lab di Madrid il 2 giugno 2016