NAPOLI – Nel Decameron (IX novella, VI giornata), raccontando di Guido Cavalcanti, Boccaccio riferisce la risposta che questo poeta seppe dare ad alcuni che gli davano noia: «A’ quali Guido, da lor veggendosi chiuso, prestamente disse: – Signori, voi mi potete dire a casa vostra ciò che vi piace – , e posta la mano sopra una di quelle arche, che grandi erano, sì come colui che leggerissimo era, prese un salto e fussi gittato dall’altra parte, e sviluppatosi da loro se n’andò». Cavalcanti, amico di Dante Alighieri, con un gesto atletico e una risposta superbamente arguta risolve, temporaneamente, il problema che forse assillava quei giovani poeti che tra loro erano soliti definirsi “fedeli d’amore”; incendiati d’amore e pertanto nel loro zelo, pur a rischio d’apparire lontani, oscuri e superbi e non potevano, né volevano, sprecare tempo dietro alle vanità del mondo. Il balzo, con cui Cavalcanti esce dal cimitero e lascia di stucco i suoi avversari, illustra bene questo distacco giovanile, impetuoso e assoluto: da una parte vita, amore cultura dall’altra ignoranza e morte. La tipologia e la natura specifica di questo gruppo di poeti sfuggono ancora all’indagine degli studiosi, ma appare ben chiara la densità concettuale che questi giovani hanno assegnato alla parola “amore”.
Al di là del sentimento, che ogni essere umano prima o poi incontra nella vita, si tratta di una dimensione spirituale che, qualora realmente compresa e accolta in tutta la sua dirompente potenzialità, rende colui che la sperimenta vivo davvero (e gli altri sostanzialmente morti, giusta la battuta di Cavalcanti) ed acceso d’un fuoco dirompente, inestinguibile destinato a incendiare chiunque incontri e che minimamente sia capace d’intenderlo, destinato a segnare qualunque contesto, culturale e socio-politico, disponibile ad accoglierlo. Qualcosa di molto simile insomma a quell’eros di cui aveva già parlato Platone in pagine memorabili del suo Simposio.
Un fuoco inestinguibile si diceva, lo stesso fuoco che, da qualche anno ormai, spinge il regista Marco Martinelli e l’attrice Ermanna Montanari del Teatro delle Albe a chinarsi sulle pagine di Dante per ritrovare di quel fuoco non solo vestigia fredde e spente ma addirittura, miracolosamente dopo secoli, un ultimo tizzone acceso, una fiammella debolissima ma viva, palpitante, una lingua piccola di quel fuoco, flebile, tremante ma ancora capace di parlarci. “Fedeli d’amore. Polittico in sette quadri per Dante Alighieri” è lo spettacolo che Marco Martinelli ed Ermanna Montanari hanno presentato in prima nazionale, al Teatro Sannazzaro per il Napoli Teatro Festival 2018, diretto da Ruggero Cappuccio. Questi artisti hanno auscultato con straordinaria sensibilità la voce di Dante, compreso profondamente la vertigine spirituale che quel concetto d’amore implica, intravisto la vitalità politica che esso può sostanziare nell’oggi. Ne hanno assimilato il ritmo interno e ritradotto nel loro precipuo linguaggio scenico per la fruizione teatrale dell’oggi, avendo ben chiaro che trattasi di materia viva e bruciante.
La forma dello spettacolo è quella di un “polittico” di densa materialità poetica / musicale / visuale che si dispiega in sette quadri / pagine / voci: la nebbia in un’alba del 1321 (in quella notte, in una cameretta di Ravenna, moriva il Poeta), il demone della fossa, un asino in croce, il diavolo del rabbuffo, l’Italia che scalcia se stessa, Antonia la figlia del poeta, una fine che – va da sé – non è una fine. Le musiche (importanti) sono di Luigi Ceccarelli, la regia del suono di Marco Olivieri, le ombre di Anusc Castiglioni e il disegno luci è di Enrico Isola. In scena Ermanna Montanari legge quasi del tutto e interpreta il testo drammaturgico, ma in realtà lo attraversa meravigliosamente, come solo lei sa fare, col suo corpo e la sua voce, accompagnata discretamente dal trombettista Simone Marzocchi capace di improvvisare con la potenza del suo strumento, la sensazione di alludere a quanto più di magmatico, drammaticamente ineffabile e non formalizzabile dalla musica, poesia e immagini presenti nella vita di chi lotta per “amore”. Ogni singolo quadro appare prezioso: visioni che si inseguono, suoni, voci interiori, di desideri, colori, amarezze, slanci corporali e spirituali per poi spegnersi di sensi, materia e sogno e lotta fino alla sfinimento mortale. Tutto quello che compone la meravigliosa tavolozza della poesia dantesca. Merita di essere citato, perché ci è parso davvero il vertice di questa esperienza di teatro/poesia, il quadro dell’asino in croce che ha portato su di sé il peso del mondo.
È poesia tragicomica, impastata di versi raffinatissimi e grugniti, greve di animalità eppure sublime, poesia in cui l’incontro col “basso corporale” d’una bestia schiacciata da fatica e stenti si trasforma nella gloria cristiana della croce, senza disperdere nemmeno un grano della ricchezza di echi letterari e simbolici che l’immagine dell’asino comporta quasi automaticamente (si pensi all’opera di Apuleio e al suo rapporto con la mistica del culto di Iside). C’è un altro aspetto di questo lavoro che va considerato in una riflessione che, oltre a descrivere, vuole assumersi del tutto la responsabilità critica: è la scelta di leggere il testo e di non recitarlo interamente. La qualità dell’attrice dimostrata e la riprova di non essere il primo spettacolo delle Albe realizzato così. Si tratta ovviamente di una scelta stilistica che, se realizzata in teatro, va discussa e interpretata: probabilmente la scelta più semplice è la considerazione, trattandosi di uno spettacolo in cui ci si confronta con la poesia (con il senso stesso che le appartiene), che sia del tutto naturale leggere, porgere il testo e attraversarlo a partire dalla presenza in scena di un leggio.
Niente di trascendentale quindi, ma una scelta che resta problematica perché pone altri quesiti nel riguardare la forma stessa della rappresentazione e la possibilità di incrociare teatro e poesia non tanto a partire dalla dimensione di un semplice reading, ma in una forma di comunicazione dell’esperienza poetica che fa del ritmo una specie di matrice musicale in cui convogliare, contemporaneamente, l’esperienza sensoriale, emotiva e intellettuale del pubblico e quella feconda e produttiva dell’interprete e dell’intero ensemble degli artisti.
Visto al Teatro Sannazaro di Napoli il 15 giugno 2018
Fedeli d’amore, polittico in sette quadri per Dante Alighieri
di Marco Martinelli; ideazione e regia di Marco Martinelli e /con Ermanna Montanari; musica di Luigi Ceccarelli; tromba di Simone Marzocchi; regia del suono di Marco Olivieri; spazio e costumi di Ermanna Montanari e Anusc Castiglioni; ombre di Anusc Castiglioni; disegno luci di Enrico Isola; tecnico luci e video Fagio; tecnico ombre Alessandro Pippo Bonoli; realizzazione musiche Edisonstudio Roma; consulenza musicale Francesco Altilio, Giulio Cintoni, Cristian Maddalena, Mirjana Nardelli, Fabrizio Nastari, Giovanni Tancredi, Andrea Veneri; consulenza iconografica Alessandro Volpe; organizzazione e promozione Silvia Pagliano, Francesca Venturi; produzione del “Teatro delle Albe” e di “Ravenna Teatro” in collaborazione con “Fondazione Campania dei Festival” e “Napoli Teatro Festival Italia” e “Ravenna Festival”.