MILANO – Il lavoro di Federica Fracassi è condotto sempre in profondità. Anche in “Rosmersholm”, monodramma da Ibsen costruito già da Massimo Castri nell’80, parte dalle radici dell’istinto affiorando come intelligenza fino alla crudeltà, non solo nel senso artaudiano di rigore. Femminile o maschile (secondo vecchie categorie) quella intelligente crudeltà? La ebbe di certo Eleonora Duse, pioniera ibseniana che dovette scontare una sorta di autocensura, di timidezza nei confronti del potere maschile. Come del resto si rappresentano le donne di Ibsen. Federica Fracassi invece, attrice di oggi, può non solo dare fondo a tutta la ricchezza propria, ma anche farla emergere da una di quelle figure, rinnovandola.
In “Rosmersholm” (1886) l’incontro-scontro si svolge tra il fascinoso, rigido pastore Rosmer e una apparentemente vitale, innocente Rebekka. Si sono innamorati, nonostante lui sia sposato con Beata che si toglierà di mezzo buttandosi nella gora del mulino. Chi l’ha spinta a questo? Entrambi. Il predicatore col suo silenzio, la ragazza avvertendola della passione corrisposta. Si scopre nel corso del dramma. Uno spazio in cui il pubblico si trova a contatto fisico con i due attori – sala A come A del teatro Franco Parenti, fino all’11 febbraio -, è inaugurato e concluso dai corpi degli amanti suicidi stesi su un tavolato; il suolo è cosparso di detriti di fiori e materiali corrotti. Il match tra la governante di casa Rosmer e il pastore sembra all’inizio una sfida tra la travolgente fiducia nella vita di lei e l’oscura fedeltà di lui alla moglie che vigila da una lontana icona con lumini come in certe processioni mediterranee. E invece siamo nell’estremo Nord, in Norvegia (che Fracassi ha raccontato di aver lodevolmente visitato per prepararsi anche al “Peer Gynt” di aprile). Rotto da piccole luci è anche il buio della scena: lampadine, lampadari che oscillano, candelabri, fumiganti lumi a olio (ricordano ambientazioni dell’Odin Teatret danese).
L’improvvisa accensione del ritratto è un fantastico gioco teatrale: Rosmer e Rebekka si rivelano il loro amore proprio al cospetto del ritratto della defunta. Ma non è finita qui: i due amanti si scambiano marsina/corpetto e magicamente le parti: la delicata Rebekka diventa un forte Rosmer e viceversa moltiplicando le possibilità del dialogo a due voci sovrapposte che nel melodramma ottocentesco segnava in musica l’incontro di anime. Grande a questo punto la regia: è dello stesso Luca Micheletti, interprete di Rosmer (un potenziale Raskolnikov, comunque un personaggio dostoevskiano, autore cui il Franco Parenti dedica oltre un mese di produzioni), che crea una commistione di vite tremende a caccia di se stesse tra paura e desiderio selvaggio. Il dramma ovviamente interessò Freud.
Le figure femminili di Ibsen forse dovrebbero essere tutte ri-attraversate da Federica Fracassi per rendere evidente quanto il drammaturgo norvegese vedesse avanti, con astio o segreta sintonia per l’irresistibile ascesa della donna nei confronti del guardingo, moralistico uomo. Se la scelta delle luci di Fabrizio Ballini passa da una romantico-gotica serie di candelabri a una spettrale illuminazione da discesa agli Inferi, il confronto tra immaginario femminile e maschile continua per la durata dello spettacolo, ma si inverte in modo estremamente interessante. Rebekka ama riamata Rosmer eppure entrambi si dibattono tra sensi di colpa e liberazione nei confronti della morta suicida. E quindi per coerenza ibseniana – “bisogna farci giustizia da noi” – tutto l’amore deve morire.
Visto al Franco Parenti il 28.1.2018