RUMOR(S)CENA- GENOVA – Guardare il passato con gli occhi del presente ovvero guardare il presente con gli occhi del passato, tutto ciò che ‘accade’ in scena comunque ci riguarda, qui e ora. Boston Marriage, drammaturgia del 1999 del grande scrittore americano David Mamet, recupera o per così dire ‘sfrutta’ un modo di dire dell’America di fine ottocento, allora utilizzato per rimandare alla realtà sociale della, in tutti i sensi, autonoma esistenza/convivenza femminile. Per farlo utilizza con efficacia quel paradosso sintattico che è il teatro.
Il drammaturgo infatti costruisce, quale ben evidente simulacro (nel senso di traccia-contenitore sintattico ed estetico) una classica pièce bien faite, ovviamente ambientata nell’interno (spaziale e soprattutto psicologico) di un ‘salotto’ borghese’ appunto di fine ottocento, attraverso la fitta e man mano illuminante trama del dialogo a tre capace di sviluppare, nella contingenza, un tempo ed uno spazio che quella contingenza travalica. Così può dentro di essa precipitare una molto moderna situazione, allora per così dire socialmente estranea ma tollerata extra-ordinariamente solo in quanto praticata in quelle forme celate ed insieme svelanti e così accettabili.
Pruderie, direbbero i francesi, che la scrittura di Mamet sembra assumere di buon grado se non per improvvisamente strapparsi nell’esplicito, anche piuttosto forte nella sua evidenza tuttavia senza volgarità, quasi a mostrare l’urgenza che il groviglio psicologico che lega le due (anzi tre) protagoniste ha di finalmente essere quello che è. Due donne un tempo legate da una ‘relazione’ sentimentale si ritrovano nella casa lussuosa della più âgée, ora ‘mantenuta’ da un ricco uomo che mai compare, insieme ad una cameriera campagnola, comica ma dalla comicità ‘sapiente’ di un Bertoldo, pronta ad essere utilizzata, nell’intrigante triangolo, in funzione di deus ex machina.
Come in ogni classico di genere, poi, una serie di equivoci e di colpi di scena condurrano la vicenda alla sua ‘naturale’ conclusione, che ovviamente non sveliamo. Ci domandiamo allora, anzi il drammaturgo sembra retoricamente invitarci a farlo, perché lo statuto di mantenuta sia meglio tollerato ‘in società’ mentre quello di donna omosessuale allontanato il più possibile dallo sguardo. Forse perché il primo evidenzia subordinazione fino alla sottomissione mentre il secondo rischia di portare con sé, insieme ad una pericolosa autonomia, una ancora più pericolosa contrapposizione fino alla ribellione?
Io credo che Mamet ci racconti questo, con intelligenza e consapevolezza, con un brio ed una eleganza che ‘organizza’, più che in altri suoi lavori, la rabbia e il disagio sociale nelle forme ottocentesche (ivi compreso il magistrale e quasi ultimativo, utilizzo di calembour tipici ad esempio della scrittura di Oscar Wilde) che le filtrano distillandole, manovrando cioè quel passato per farci vedere questo nostro presente che sembra un progresso ed una conquista, con il dubbio però che qualcosa non sia proprio andato nel verso giusto. La tematica d’altra parte è di estrema attualità e la scrittura di Mamet ci offre uno strumento ulteriore di consapevolezza per poter così rispondere e articolare, come avrebbe detto Luigi Pirandello, ‘ciascuno a suo modo’.
La consueta forza del testo dello scrittore americano, nella tradizionale traduzione di Masolino d’Amico, poi, trova qui piena espressione nella recitazione delle tre protagoniste, non solo delle più conosciute Maria Paiato, bravissima a mantere toni da vaudeville senza tradire il contesto drammatico, e Mariangela Granelli, che quei toni sa ricondurre alla realtà che cercano con lodevole intenzione di trasfigurare, ma anche della giovane Ludovica D’Auria efficacissima nella chiave grottesco-comica della falsamente ‘incapace’ cameriera.
Il tutto sostenuto da una regia, di Giorgio Sangati, interessante che guida, con qualità , recitazione e prossemica, all’interno di una scenografia, di Alberto Nonnato, falsamente ‘verista’ ma in realtà abbastanza stilizzata da sembrare più modernamente simbolista, come del resto l’ambiente luci, quello sonoro-musicale ed i costumi, rispettivamente di Cesare Agoni, Giovanni Frison e Gianluca Sbicca. Uno spettacolo molto meritevole, se non meritorio, alla sala Eleonora Duse di Genova, Ospite del Teatro Nazionale, dal 25 al 28 gennaio. Alla prima sold out e applausi anche a scena aperta o in cambio scena.
Boston Marriage di David Mamet, regia Giorgio Sangati, traduzione Masolino d’Amico con Maria Paiato, Mariangela Granelli, Ludovica D’Auria, scene Alberto Nonnato, luci Cesare Agoni, costumi Gianluca Sbicca, musiche Giovanni Frison, produzione Centro Teatrale Bresciano, Teatro Biondo di Palermo
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