MILANO – Se nella passata stagione si celebrava il quattrocentenario della morte di Shakespeare, in questa, a distanza di un anno, nel panorama milanese assistiamo a una centellinata eppure ininterrotta messa in scena delle opere del Bardo. Se l’anno scorso fu un tripudio di “Amleto” (da quello di Ninni Bruschetta, al Ciro Menotti, a quello in versione “FX” di Vico Quarto Mazzini, al Teatro Sala Fontana; da “L’Archivio delle Anime – Amleto” di Grammatica degli Affetti al Rosetum, all’ “Amleto avvisato mezzo salvato”, produzione Filarmonica Clown, al Teatro della Cooperativa), quest’anno l’attenzione sembra puntata su titoli meno “facili” e che, alla storia d’amore, antepongano la vicenda di potere e del suo uso sinistro e manipolatorio.
Era già il giugno del 2015 quando Michele Sinisi portava in scena al Teatro La Cucina, all’interno dello storico appuntamento estivo “Da Vicino Nessuno è Normale”, quel suo “Riccardo III” tornato al Sala Fontana qualche settimana fa; e proprio questo titolo, insieme al “Macbeth”, sono i titoli che ricorrono in questo ultimo sprazzo di stagione.
La virtuosa e oramai immancabile, a fine stagione, nei locali meneghini, “Tournée da Bar” (format dall’ intuitività ideativa pregiudicata e premiata dagli esiti felici, grazie sia all’efficacia ludico-divulgativa, che all’indiscussa performatività e bravura del duetto storico Davide Palla-Tiziano Cannas Aghedu), infatti, proprio con “Macbeth” arricchisce di un altro capitolo la sua trilogia shakesperiana. Dopo lo strepitoso esordio di “Otello”, proseguito con lavori più corali quali “Romeo e Giulietta” e poi “Amleto”, quest’anno si confronta proprio con quel dramma del potere, affrontato anche dal Teatro del Simposio nella sua “Psychedic Macbeth”; e se nella lettura di Francesco Leschiera il dramma è tutto “Dentro la testa” (così titolava anche un suo cortometraggio di qualche anno fa) del signore di Glamis, non così in quel “Macbettu” di Sardegna Teatro, in scena, dal 23 al 28 maggio al Teatro della Triennale di Milano.
L’idea di Alessandro Serra è semplice: trasporre nella Barbagia quel dramma, che per la sua crudezza ed essenzialità ben si adatta a una terra, a una lingua e ad una cultura dai tratti asciutti e dalle dinamiche relazionali ancestrali. Così, la Scozia di Macbeth; così quella Sardegna nuragica, similmente dominata da rapporti duri e patriarcali e da una natura, che incombe come i campanacci delle pecore di quel popolo pastore, le presenze irrazionali e a loro modo “fatali” delle tre sorelle o il bosco di Birman. La restituzione sceglie colori basici – bianco e nero -, luci intenzionalmente scure e un palcoscenico vuoto, riempito, di volta in volta, da figure drammatiche o grottesche, tutte rigorosamente al maschile – fedele, in questo, alla tradizione del teatro elisabettiano, anche – e da pochi oggetti di scena dalla versatilità e dalla simbologia efficaci. E’ il caso dei tavolacci, che sono sì le mura del castello – altissime, ma infide, se vero è che è proprio da lì che sgusciano fuori le tre figure malefiche -, ma poi anche la tavola imbandita su cui si consuma l’ultima cena della pazzia di Macbettu – con tanto di citazione pittorica classica, nella disposizione frontale dei commensali, e in quel pane non “spezzato”, qui, ma “calpestato” dall’incedere attonito e inarrestabile del terribile spettro di Banquo – o la seggiolina impagliata che simboleggia il trono – in fondo sempre troppo piccola per contenere la sete di potere dell’aspirante.
Il “grande” e il “piccolo”, del resto, sono metafore qui abilmente (ab)usate: altissimo è l’attore che impersona Lady Macbeth, unica figura femminile, e che, come una sinistra Biancaneve versione Grimilde dark, tira i fili degli innumerevoli nani – non solo di Macbettu -, che le girano attorno come bambini che giochino a contendersi il potere. Infantile è certo il protagonista, sbeffeggiato dalle streghe – strepitose nelle loro movenze dalla carica dissacrante, grottesca e caricaturale – in quella eco, che lo tormenta, a ondate, chiamandolo per nome, in un cantilenare infantile. Un lavoro certo ben fatto e coerente, questo di Serra, che svolge in modo diligente e sobrio il tema trattato, ma che forse mantiene poco la promessa dell’ancestralità apotropaica e terrigna, che sembra invece “risciacquata” nell’Arno del modo accademico. Dove sono, ci si chiede, la brutalità e la durezza di quelle genti antiche? Dove, l’odore delle pelli di pecora dei Mamuthones, il suono chiassoso dei loro campanacci o la durezza asciutta e terribile delle loro maschere?
Così, se pecca per “misura”, lo Shakespeare di Alessandro Serra, questo non è certo il rischio corso dal “Richard III” di Thomas Ostermeier, in scena al Piccolo Teatro di Milano, dal 25 al 27 maggio 2017, in occasione dei festeggiamenti per il Settantesimo dalla fondazione del teatro. Anche in questo caso un’idea forte a dominare e dirigere la messa in scena. Nelle mani del direttore artistico della Schaubühne di Berlino, infatti, lo shakespeariano Riccardo Terzo non è tanto il mostro deforme, il rancoroso scherzo della natura, che, terminato lo spregiudicato tempo di guerra – in cui gli era dato prodigarsi, rendendosi, in tal modo, gradito al re –, ora si ritrova escluso, a tramare, ringhiante, inadatto alle feste e ai festini del tempo di pace; no, questo Richard III, al contrario, è lui stesso lo spirito che anima, dirige e pilota i festeggiamenti e il flusso degli eventi. E’ il guitto sagace e diabolico: il servo astuto della Commedia dell’Arte, che, con la sua raffinata arte del dissimulare, riesce a tessere una sofisticata trama, entro cui far cadere ad uno ad uno, al ritmo capriccioso del suo bisbetico disappunto, quegli uomini e quelle donne tanto più abili di lui, sulla carta, perché tanto più belli, sani e dotati dalla natura.
Non pone limiti, Richard, al suo delirio; e non c’è bassezza o tattica che non osi usare pur di raggiungere il proprio scopo: in un geniale doppio salto mortale di “smascheramento dello smascheramento”, fin da subito nudo offre alla sua vittima – quella Lady Anne, a cui aveva ucciso padre e marito – l’arma con cui vendicare i lutti subiti, guadagnando una moglie di comodo al posto di una nemica sprezzante e irriducibile; tira i fili per l’assassinio del fratello Clarence, che invece lo crede porto sicuro, e non risparmia neppure i nipoti bambini o la loro sorella adolescente, che brama avere al proprio fianco come sposa, solo per sottrarla alle attenzioni del rivale. Dissimula perfidia e ostenta devota pietà. Si fa umile coi potenti e feroce coi sottoposti. Manipola coloro che non lo credono capace di tanto, fino a restare appeso alla trappola che spesso scatta, in ogni favola a suo modo edificante, contro chi osi l’inosabile.
E se forte è l’idea che guida Ostermeier, non meno efficace è la macchina registica, che sa mettere in piedi per farci arrivare tutto questo. Un festino, come in certi party di fine campagna elettorale dei nostri giorni, in cui parole d’obbligo sono “eccesso” e “divertimento” – e “promiscuità”, “ipocrisia” e simulazione e dissimulazione. Si apre così: con un’invasione dalla platea del nutrito cast degli attori tedeschi, che in molte altre occasioni, nel corso delle quasi tre ore dell’atto unico di cui si compone la pièce, avranno modo di abitare lo spazio condiviso col pubblico, a significare che, in fondo, quel che accade sul palco, non è cosa “altra” da quel che si vive in platea, ma ci riguarda tutti. Gran cerimoniere – e impeccabile padrone di casa, che, per l’intera durata dell’opera, non smette mai di aleggiare, con la sua ambivalente presenza, in quegli orditi spiazzanti per la loro spregiudicatezza – è Riccardo: visibilmente marchiato, nel fisico, dalle menomazioni – la gobba e un andamento claudicante, che lo impedisce e contorce come in una caricatura di se stesso -, la scelta, però poi cade su un attore scultoreo, che trasuda bellezza e sanità, come Lars Eidinger.
Un corto circuito tanto spiazzante quanto esplicito: non sono pietà o commiserazione, quel che Ostermeier vuol suscitare – e neppure disprezzo per quel fisico deforme -; ma sono la forza e la seduttività attraverso cui sollecitare l’identificazione del pubblico. E ha buon gioco, Ostermeier, complice anche un attore dalla carica performativa inarrestabile, che, supportato da un cast di colleghi tutti di prim’ordine e da una macchina scenica instancabile nel gioco delle azioni e delle trovate ininterrotte, non lascia tregua allo spettatore. E’ tutto molto ben giocato: le luci, la bicromia di un bianco e nero quasi da scacchiera, lo spazio scenico, che si scandisce in due ordini – l’agorà, quasi, a livello palco, e, al di sopra, le “stanze” private, che sono poi le reali “stanze dei bottoni” -, una prossemica e una fisicità certo rodate – sabato 27 si è tenuta la centocinquantesima replica -, ma giocate con una naturalezza, che talvolta sconfina quasi nel naturalismo – vedi l’assassinio di Clarence con fiotti di sangue e le contorsioni tipiche di un corpo, che si estingue nel sussulto dell’ultimo rantolo -, tal altra in un’eroicità performativa da Übermensch, in quelle scalate e discese di slancio, dal sotto al sopra e viceversa, con la furia di ratti che attentino al potere e la plasticità di nuovi vigorosi super eroi. Né manca l’attenzione ai tratti delicati – felice, l’intuizione di rendere i delfini bambini attraverso fantocci a persona, significativamente mossi dai personaggi di corte e vestiti, loro soltanto, con nuance di grigio super partes; struggente la scena della deposizione dei loro corpicini esanimi ai piedi del tiranno – o, per converso, ai ritmi incalzanti scanditi dal batterista dal vivo e dalla voce di Richard amplificata da un microfono, capace, sul finale, di trasformarsi in un più che voyeristico occhio di telecamera come quello visto, la scorsa stagione alla Triennale, nell’ugualmente shakesperiano “Giulio Cesare – Pezzi staccati” di Romeo Castellucci (lui pure transitato per la Schaubühne).
Richard III regia di Thomas Ostermeier visto al Piccolo Teatro Strehler di Milano il 25 maggio 2017
Macbettu regia di Alessandro Serra Sardegna Teatro / visto al Teatro della Triennale il 27 maggio 2017