CASTIGLIONCELLO (Livorno) – Un’attesa che durava da sempre. In casa ad aspettare che torni ci sono cinque donne. Un’attesa al femminile per un uomo il cui ritorno diventa ragione di vita, di speranza e di morte. Un soldato congedato dal fronte desideroso di rimettere piede nella sua casa, stanco come lo può essere un giovane uomo prestato alla guerra e privato degli affetti famigliari. Lo attendono cinque donne di età diverse: “la più giovane, la seconda, la maggiore, la madre, la vecchia”, spiega Renata Palminiello regista di “Ero in casa e aspettavo la pioggia” adattamento dal testo di Jean-Luc Lagarce. Una vicenda intima e drammatica che si svolge nell’arco di poche ore, dalla fine del pomeriggio al mattina del giorno dopo. L’attesa durata anni si consuma in una manciata di ore che si sfalda nello spasimo di sapere, di capire, di indagare, cosa sia accaduto, convinte da tanti silenzi di aver perso quell’uomo per sempre.
Un’apparizione carica di interrogativi sospesi e maturati nel grembo femminile. Domande a cui dare delle risposte che non arrivano e forse non arriveranno mai. Il sonno eterno potrebbe cancellare tutto. Renata Palminiello da vita ad un percorso che si sviluppa come una figura elicoidale dove le dinamiche delle cinque protagoniste salgono e scendono, tra alti e bassi dell’umore, emozioni sopite, desideri celati e mai realizzati, facendole salire delle scale di Castello Pasquini, per poi riscenderle subito dopo. La vita è come una scala dove è possibile fare dei passi avanti e subito dopo ritornare al punto di partenza. Dialoghi tra generazioni che si devono confrontare in cui il giovane uomo misterioso, evocato senza mai comparire, è il perno che fa ruotare un continuo andirivieni di esistenze inquiete e le scale, una scelta regista e scenografica tale da far risaltare bene la drammaturgia. Lo scendere e il salire diventa metafora di sentimenti altalenanti e discordanti tra di loro.
Donne che mediante l’apparente ripetizione delle parole «recitano la recita della verità del dire», come lo stesso Lagarce scrisse per spiegare il suo intento. Un amore diviso tra le cinque donne, spartizione di un sentimento frammentato e mai realizzato. La serietà artistica di Renata Palminiello sceglie un autore come Jean Luc Lagarce, un drammaturgo tra i più produttivi in Francia, il più rappresentato a teatro dopo Molière nella sua patria. Autore capace di materializzare la parola per un teatro che sappia amplificarla nella sua dirompente forza drammaturgica. La regista che ha curato la traduzione e la versione vista al Festival Inequilibrio in forma di studio ( contiene già tutti i prodromi per diventare una creazione per la scena definitiva di indubbio successo), insieme a Carmela Locantore, Maria Grazia Mandruzzato, ha forma e sostanza come una creazione scenica di indubbio valore, dai ritmi incalzanti in cui muove le figure delle attrici Camilla Bonacchi, Carolina Cangini, Maria Grazia Mandruzzato che da anima ad una donna intensa e appassionata come poche altre potrebbero recitare, e la stessa Palminiello.
Pedine su una inesistente scacchiera in cui i giocatori sono il passato, il presente e un futuro visto come un’incognita. La parola le muove e le porta a scontrarsi e a riavvicinarsi. La scelta di lavorare su un testo modificando la volontà dell’autore di far apparire le cinque donne “tutte simili e più o meno della stessa età”, allontanandole tra di loro per differenza di anni è vincente, carica di valenze ancora più determinanti per raccontare una storia transgenerazionale ed esistenziale. L’uomo non c’è ma è sempre incombente. Cosa c’è nascosto che non possono vedere le donne? Chi si cela dietro un’identità maschile di cui non sapremo nulla? Si contendono quell’uomo per un bisogno atavico di amore, di affetto, di tenerezza, senza riuscirci. Una proiezione della mente verso un universo da sondare e da scoprire. Erano in casa e aspettano la pioggia, anzi “ero in casa e aspettavo la pioggia”. Forse per sempre. Invano. Chissà se gli spettatori avranno provato la stessa sensazione, disposti sui pianerottoli intorno alle scale del castello, divenuto una casa dove restare prigionieri di se stessi.
Visto al Festival Inequilibrio 2014 di Castiglioncello