MILANO – Se ne parla sempre più spesso: se per alcuni il teatro è solo un momento culturale o ricreativo – di certo sempre ad alto tasso di scambio sociale e relazionale, com’è evidente specie nelle piccole comunità, dove spesso diventa anche un’occasione mondana -, accanto a ciò c’è un teatro che lo stigma del sociale, invece, se lo incorpora nella sua stessa mission. È il teatro delle diversità: da quello di Virgilio Sieni o di Alessandro Garzella, da anni impegnati con situazioni di marginalità che riescono a portare ad una perfetta espressione artistica sulla scena, alle varie esperienze di teatro nelle carceri (dal Cetec – Centro Europeo Teatro e Carcere), Edge di Donatella Massimilla, nella Casa Circondale di San Vittore, a Milano, al Teatro in-Stabile di Michelina Capato, all’interno della II Casa di Reclusione di Milano Bollate, solo per restare nell’area metropolitana milanese.
È in questo contesto che si muove anche Opera Liquida, progetto diretto dalla regista Ivana Trettel all’interno della I Casa di Reclusione di Milano Opera, che, dal 2014, propone il festival di teatro carcere: “Prova asollevarti dal suolo”. Un ricco programma, che quest’anno si articola dal 24 giugno al 9 novembre, e che vede l’alternanza di spettacoli a cura di attori detenuti come “Il lupo e i sette capretti”, (che ha inaugurato il festival lo scorso 24 giugno), “Uccidi chi non ti ama” (il 20 giugno scorso), “Ci avete rotto il caos”, (lo scorso 14 settembre), Alex e Franz, il prossimo 5 ottobre, Max Pisu, il 26 ottobre, (e il caso isolato lo scorso 6 luglio, di Livia Grossi giornalista del Corriere della Sera), che è salita sul palco per un toccante reading-testimonianza su “Storie di donne-coraggio”, come recita il sottotitolo del suo “Nonostante voi”. Insieme agli altri, in quest’alternanza di luoghi fra il Teatro Stabile della Casa di Reclusione Milano Opera e lo Spazio IN Opera Liquida, presso il Parco Idroscalo Punta Est, giovedì 28 settembre è andata in scena Rossella Raimondi con il monologo “La Mula”: sua anche la drammaturgia.
Ne sono piene le programmazioni teatrali, si penserà, complici anche le sempre minori risorse economiche del teatro e i suoi costi di produzione. Eppure un monologo, che, senza nessuna pretesa di sensazionalismi, racconta una storia “piccola”, “quotidiana” e “ordinaria”, per certi aspetti, ma lo fa con una cura, una grinta e un’ironia da farci quasi scordare di essere in una sala teatrale. Ci sembra, invece, di avercela lì di fronte a noi, quella strampalata vecchina; chissà un po’ l’età e un po’ forse quella vita di certo non facile che via via ci sciorina, possono bastare a giustificarne il bizzarro contegno. Più che un monologo, un flusso di coscienza o meglio, una senile in-coscienza, che ha rotto gli argini della civile auto censura che ora travolge tutto e tutti senza posa. Senza timore alcuno, sale fino in cielo a parlare a tu per tu coi Santi (lo stesso Padre Pio si risolve in un canzonatorio “Pio, pio-pio…”) e il Crocefisso diventa quel Fisso dei Cieli, che chi lo sa se, alla fine, nel suo delirante gioco d’inversione di ruoli, l’ Angiulina avrà davvero voglia di perdonare, per poi di lì rovinare addosso a quei balordi (il marito bello, sì, col suo ciuffo terònico, ma poi anche un Rodolfo Valentino depresso, “che gliel’ha tacché lü, la debulèssa” alla figlia anoressica).
Una straziante dinamica bipolare fra il senso di accudimento e la ricerca di autonomia, lo struggente tentativo di apprendere una dinamica degli affetti meno dura di quella di sussistenza del mondo agricolo da cui proviene e la profonda ribellione al senso di colpa, costantemente gettatole addosso; un viaggio fra vergogna e rivalsa, bisogno d’imparare mani morbide capaci di carezze e la profonda solitudine di chi, in fondo, non si sia mai sentita a casa sua. Ce lo racconta con poesia, la “Müla”. Il riferimento è all’instancabilità di quella che, oggi, definiremmo una hard working, ma che, nel boom economico degli anni ‘60, di un’Italia ancora in via di definizione – tanto dal punto di vista economico, quanto da quello etno – socio culturale – , quante analogie in filigrana. Con chissà poi quanto diverso razzismo, che scorre, oggi, fra noi ugualmente italiani, ma che solo fino a 50 anni fa, ci declinavamo nelle genie delle differenti popolazioni italiche, e si vantava della sua stessa tempra fisica, sbeffeggiandosi in un auto ironico “Io, io… ih-oh!”. Con quella triviale arguzia, crassa volgarità e quell’irriverente spavalderia, che l’estrazione sociale e la vivacità del dialetto, oltre ad un principio di senilità probabilmente, (e i suoi 74 anni, ce lo ricorda a più riprese), nonché l’amarezza per una vita fatta più di stenti, umiliazioni e delusioni, che di gioie, ben giustificano drammaturgicamente. E, dopo tutto questo è rimasta sola, abbandonata perfino da quel “manicaretto”, come definisce l’effetto della funzione corporale, che attende, quotidianamente, nell’irrequieta immobilità della sedia a rotelle. È brava Isabella Raimondi, nel restituirci tutto questo: efficace, auto ironica, istrionica quanto basta e poi versatile, nel rallentare il ritmo in rari momenti di lirismo, così come nell’accelerare, cavalcando all’impazzata l’incontenibile avanzata della vecchia senza più remore.
Visto allo Spazio IN Opera Liquida Parco Idroscalo Punta Est di Milano, il 28 settembre 2017.