RUMOR(S)CENA – Ignorando la cornice geopolitica, la visione di Non conosci Papicha, da poco in sala dopo il passaggio al Festival di Cannes 2019 nella sezione “Un certain regard”, risulta ardua per lo spettatore europeo. Il saggio breve di Caterina Roggero (05-’17), Il “Decennio nero” algerino: una ferita ancora aperta, può fornirgli delle coordinate: nel ‘97 la guerra civile algerina, iniziata sei anni prima, conosce una prima battuta d’arresto grazie alla tregua unilaterale firmata dall’Armata Islamica di Salvezza e al contempo una recrudescenza, vedendo scendere in campo il Nucleo Salafita per la Predicazione e il Combattimento, sorto dalle ceneri dei Gruppi Islamici Armati, il quale, anche dopo il ‘99, anno della fine del conflitto nonché dell’elezione del presidente Bū Teflīqa, continuò ad organizzare diversi attentati, colpendo funzionari di polizia e altre istituzioni locali. La vicenda narrata della franco-algerina Mounia Meddour, qui al primo lungometraggio di finzione dopo due documentari, si colloca proprio nell’occhio di questa “tempesta”.
“Papicha” (ossia “fanciulla libera e graziosa”) è il soprannome che Nedjma (Lyna Khoudri), protagonista del film, si sente affibbiare dai suoi goffi spasimanti. Frequentante il terzo anno di studi francofoni all’Università d’Algeri, la nostra, insieme all’amica Wassila (Shirine Boutella), sgattaiola nottetempo dal dormitorio, corrompe il già poco raccomandabile guardiano e sale in tassì per raggiungere una discoteca clandestina. Non sono tuttavia le canzoni house o i morosi le principali attrattive bensì riuscire a vendere nel retrobottega alcuni capi d’abbigliamento, ideati e cuciti da Nedjma nel tempo libero. Il Nucleo Salafita di cui sopra comincia, intanto, a mietere i primi consensi fra studenti di ambo i sessi, specie (e inaspettatamente) fra le ragazze che abbandonano presto il camice detto “abāya” per l’integrale velo islamico e così pure i seminari di filosofia post-moderna per declamare meccanicamente aforismi religiosi. Con la complicità delle compagne più sensibili, fra le quali Samira (Hilda Amira) e Kahina (Zahra Doumandji), Nedjma giocherà il tutto per tutto pianificando una sfilata di moda ruotante attorno agli “hayik”, le tradizionali, ampie tuniche bianche, simbolo della resistenza nazionale contro il colonialismo francese, ingegnosamente modificate per l’evento…
Leggendo alcune recensioni, Papicha rievocherebbe con vividezza la tragedia di un passato ahinoi vicino, rendendo il pubblico partecipe del calore della sorellanza e del contatto umano in un microcosmo brutale, corruttibile ma, più importante ancora, e in ciò risiede per noi l’interesse principale dell’opera, volge in immagini non scontate il potere della Bellezza, di cui l’arte vestimentaria diviene radiosa emanazione. È un film d’orli… e di “onde”: onde del mare, delle vesti, di panni stesi; onde formate da una mano imprudente, che rotea fuori dal finestrino di un’auto in corsa. Per Carmen Paddock (03-’20), ad esempio, l’opera sembra uscire, grazie alla fotografia di Léo Lefèvre e ai costumi di Catherine Cosme, “dalla tavolozza di colori densi e luccicanti dello scrigno d’ombretti di un’adolescente”. Si può andare oltre: sotto le pietre della Qaṣba palpita quasi una parabola settecentesca “di dame francesi”. Benedetta Craveri, nel libro La civiltà della conversazione, presenta con affetto queste “incantevoli dame che si distinguevano per eleganza, personalità e superiorità estetica” (Branchi, 11-’13), guidando il lettore in un “mondo lontano […] che aspirava a raggiungere la perfezione con l’aiuto delle donne, maestre di grande eleganza” (Id.), messaggere “del sentimento dell’amicizia, del dono disinteressato di sé” (Id.), qualità che fondarono l’ideale nobiliare fin da principio. Nedjma e le sue “sorelle”, non di sangue ma nell’animo, sono dunque portatrici di un “nobiltà” nuova ed antica al tempo stesso, legata non all’agio o alle varie forme di dominio ma portavoce delle qualità elevatrici della Bellezza? Può darsi.
L’eccezionalità che distingue la “fanciulla libera e graziosa” del titolo non risiede tanto nella “scelta di vestirsi come desidera, di lasciare i capelli scoperti, di sedurre o danzare” quanto nel voler e saper far sbocciare qualcosa di autenticamente bello da una realtà di indicibile dolore, persino dalla morte stessa (si veda l’uso particolare che viene fatto del succo di barbabietola e radice di curcuma in una sequenza del film). Toccante, poi, il ricorso in colonna sonora all’Aria di Anastasio, Sento in seno ch’in pioggia di lagrime, dal Giustino (1724) di Antonio Vivaldi: nella risolutezza e foga creativa di Nedjma e compagne risuonano le strofe del libretto del Berengani (Ma mio core tralascia di piangere / Tralascia di piangere / Che il tuo pianto non scema il dolor) e, ugualmente, la dolorosa coscienza che una ribellione può accendersi, ad Algeri come in ogni altra parte del mondo, solo se occhi e mani saranno rimasti quelli di un bambino e che l’ebbrezza dell’atto ha sovente la durata e la consistenza di una fiaba come una fiaba è, appunto, l’opera di Vivaldi, “storia di un guerriero che, suo malgrado, è costretto a fare il contadino e riesce a riscattarsi, e diventare, dopo mille avventure, un eroe” (Dantone, 11-’18).
Piccola provocazione: Wendy Ide (08-’20), all’inizio del suo articolo, insinua con arguzia: “Per Nedjma la moda è politica”. E industria, potremmo aggiungere. L’universo aristocratico, in apperenza frivolo, esplorato da Benedetta Craveri, è riuscito, non scordiamolo mai, “a plasmare molte forme della vita sociale e intellettuale di due secoli, diventandone anche veicolo dell’azione politica” (Id.). Dove finisce, perciò, nell’arte vestimentaria, un atteggiamento puramente estetico, espressione della più volte ricordata forza del Bello, e comincia, invece, “l’espressione di una posizione privilegiata nello spazio sociale” (cit. Pellizzetti)? Ribellarsi vestendo “altri panni” libera davvero Nedjma e compagne? Quanto vi è, per così dire, di «umano», di «universale» e, viceversa, di «occidentale» nel loro desiderio? Le risposte ci porterebbero assai lontano. Per chi volesse approfondire l’argomento, segnaliamo le seguenti letture: il classico Filosofia della moda (1885) di Georg Simmel, incluso nell’antologia Stile moderno (Einaudi, ’20), e il più recente Civiltà della moda di Carlo Belfanti (Il Mulino, ’17).