RUMOR(S)CENA – BIENNALE TEATRO 2020- VENEZIA – Censurare: giudicare con estrema severità, biasimare, riprovare. Sottoporre a censura, eliminando o tagliando quanto non ritenuto conforme a criteri particolari di sicurezza o moralità. Antonio Latella approda a questo Atto Quarto della sua direzione dal titolo “Nascondi(no) ponendo un forte accento sulla negazione: «No a nascondere tutto quanto si pensa non corrispondere ai criteri “per decidere cosa far vedere cosa no”.»1 Dare luce, dunque, a tutto ciò che il teatro italiano ha fino adesso reso poco visibile nello scenario contemporaneo, negando (censurando) il ruolo del formatore. Ecco che la tematica della sovracitata censura prende forma e giustifica la scelta degli spettacoli, o meglio, delle compagnie da parte del direttore artistico. Queste ultime hanno presentato prime assolute sul palcoscenico della Biennale Teatro 2020, sperimentando nuovi prodotti. Bene, fatta questa doverosa premessa gli spettacoli visti nei giorni dal 20 al 22 Settembre hanno lasciato molti punti interrogativi: alcuni perché riusciti nel senso di fare e trasmettere teatro, dunque non intento moralistico bensì aprire cassetti di un “io” e portare ancora addosso l’odore di una polvere che ha scosso e agitato i tanti personaggi insiti nello spettatore; altri, e la maggior parte di quelli visionati, perché molto probabilmente un po’ troppo esperimenti senza una vera forma.
Liv Ferracchiati con La tragedia è finita, Platonov (dal Platonov di A. Cechov con la riscrittura di Ferracchiati) e Giovanni Ortoleva con I rifiuti, la città e la morte (di Rainer Werner Fabbbinder) hanno piacevolmente sorpreso il pubblico di quei giorni con studi meticolosi, in alcuni casi chirurgici e non soltanto testuali. Il primo ha osato, e lo ha fatto bene, aprire il cuore di un dramma in quattro atti scritto da un giovanissimo Cechov riscrivendolo in maniera speculare interrogando se stesso attraverso i vari personaggi i quali, inizialmente, gravitano all’interno di un quadrato fuori dal quale non è possibile uscire soltanto quando regista e attori mischiano le loro identità e dubbi fino a una confusione cosmica sull’esistenza, il perché di alcuni gesti e domande con mancate risposte. Liv Ferracchiati ha avuto molto da dire di sé, e non soltanto, su un doppio registro, comico e malinconico che ha smosso la platea, se pur a volte i tempi risultavano più lunghi del dovuto, e nonostante quella fine non arrivava mai, ma le ultime battute hanno quasi eliminato l’attesa di questa per uno spettacolo di gran lunga durata. Ineccepibile la scelta attoriale così come il ritmo e la voglia, grazie a una partitura ben interpretata, di partecipare interrogandosi anche una volta usciti dal teatro.
Con Giovanni Ortoleva la fragilità dell’essere umano ha tutti i colori e dolori che Fassbinder ha potuto, in epoca moderna, trasmettere. Portando in scena I rifiuti, la città e la morte, testo destinato a essere colpito dal più serio caso di censura che si sia registrato in Germania dopo la fine del Terzo Reich, il giovane regista ha dimostrato talento, coraggio e audacia: non un secondo di noia. Gli occhi, fin dalla prima battuta, rimasti fermi sul palcoscenico. Una passerella su cui sfilano i protagonisti, i bellissimi personaggi di A., di Roma B., di Franz B. e di Oscar De Dolore e l’intreccio ineludibile dei loro destini. Una città, quella raccontata, che si trasforma appena terminata la guerra ed è fredda, ferita, piena di dolore. Lo sporco si accarezza sui volti precisi e scomposti degli attori, sul trucco esagerato di questi, tra costumi sfarzosi e musica che non risparmia niente, nemmeno l’insoddisfazione che arriva dritta come pallottole ovunque.
Giovanni Ortoleva I rifiuti, la città e la morte Foto di Andrea Avezzù
È di sopravvivenza che si parla e perché è giusto che si sappia. Laddove è meglio chiudere gli occhi per qualsiasi strada o calle veneziana, Ortoleva costringe lo spettatore a una visione che fa male ma fa bene allo stesso tempo riesce a bagnarsi anche della componente catartica. Due ore di spettacolo che sembrano essere state un minuto in apnea. Si esce felici da questi spettacoli, contenti di vedere giovani talenti (già noti negli anni passati, dunque alcuna novità nei cartelloni) che hanno voglia di sperimentare, di misurarsi e che riescono anche con grande consapevolezza che sa, comunque, di umiltà.
Non si può dire la stessa cosa per i noti Babilonia Teatri. Che peccato! Tanta fama nel tempo, negli anni, tanto lavoro per poi non riuscire nella performance Natura morta, ambire all’ “innovazione” attraverso l’utilizzo della messaggistica istantanea, costringendo lo spettatore a trovarsi solo in platea senza la presenza del corpo attoriale, leggendo messaggi su messaggi sul cellulare, strumento di cui tanto abbiamo abusato soprattutto in periodo Covid-19. Perché riportare tutto a un distanziamento laddove tanto è stato urlata l’esigenza di tornare “a teatro” di manifestare il rapporto attore spettatore”? E ancora: perché non rispettare quest’ultimo nel momento della interazione, laddove ci siamo permessi di rispondere e immediatamente bloccati da “un testo via whattsapp”?. Non dovrebbe essere anche interattivo il teatro o sta, e non ce ne stiamo accorgendo, assumendo troppo le forme di un teatro moralista dittatoriale?Ma ancora: alla fine per pochissimo tempo entrano culturisti di ambo i sessi a muoversi al centro, tra locuste inscatolate posizionate all’inizio “performance” da Luca Scotton (emulando il moderno ride biker). Quale il senso? Condannare la pornografia all’immagine? Il senso non arriva se non un messaggio intransigente, integralista da parte della compagnia, senza scambio di pensiero alcuno, appunto.
«Quando inizio a lavorare a un nuovo progetto penso a Paul Haggis quando dice “So di aver una storia quando c’è una domanda a cui non è facile dare risposta”. Le domande che mi muovono e alle quali non so dare risposta sono: “perché hai così tanta paura di mettere al mondo un figlio?” “Mi devo vergognare se sono una donna senza figli, abbassare lo sguardo se non sono genitrice?”»2 Un dolore, quello della regista Fabiana Iacozzilli, che ha necessità di essere vomitato in uno spettacolo, Una cosa enorme, pregno di claustrofobico, dove le intere emozioni dello spettatore sono soffocate dalla mancata comprensione immediata durante la visione. Troppo grandi gli elementi che portano a distrarre nel senso più puro del significato, quello, appunto espresso nelle note di regia: un ventre enormemente gravido, enormi volatili morti, troppo cibo in scena, troppi silenzi.
Ci si chiede dove sia la censura o forse è proprio la mancata genitorialità a esserla? Ecco se così dovesse essere sarebbe forzata anche come messaggio per tutti coloro che, magari, nemmeno ci pensano a procreare oppure non possono. Sì, è vero: nella vita bisogna essere egoisti e cinici, tavolta. Ma il teatro, come l’arte in generale, ha una enorme responsabilità di comunicazione e, laddove si vuole mandare un messaggio, dovrebbe essere più corale e non criptico e rinchiuso nella mancanza o meno di pezzi della propria vita. Non c’è un essere né un non essere. È Glory Wall di Leonardo Manzan a vincere la Targa per il miglior spettacolo del 48. Festival Internazionale del Teatro diretto da Antonio Latella e organizzato dalla Biennale di Venezia. Istituita eccezionalmente nel contesto particolare dell’anno in corso per permettere ai giovani artisti del nostro Paese di essere conosciuti all’estero, la Targa al miglior spettacolo è anche, nelle parole del Direttore Antonio Latella, “un segnale di positività, di augurio e di speranza per il teatro italiano che ci rappresenterà”.
Glory Wall vince. Un muro bianco, con buchi da cui prima fuoriesce una bocca rossa che incita a soddisfare i desideri altrui e da cui emergono, poi, mani che si lavano di una tinta rossa (potrebbe evocare la regina delle domeniche del trash, Barbara d’Urso la quale, in periodo Covid-19, ha intasato i social con un video in cui, utilizzando una tinta rossa, faceva vedere come si lavavano le mani per una completa igiene). Retorica gettata in dialoghi tra Pier Paolo Pasolini con Giordano Bruno, il Marchese de Sade e Albano Carrisi. L’incomprensibile riemerge in questa performance che non evoca tanto la censura quanto un detto e ridetto senza alcun senso se non quello di puro intrattenimento moralistico.
Che fine ha fatto il Teatro, viene da chiedersi? Quello che non dà risposte ma crea domande, quello che non impone la vergogna di stili di vita né li esalta; quello che restituisce un senso ulteriore alla vita di chi assiste e non la noia o l’unico movimento quello sulla poltrona durante l’intero tempo? Muri che vincono in un periodo in cui sarebbe stato meglio abbatterli. Dove sono gli attori, i loro corpi stanchi formati, compiuti, pieni su un palcoscenico? I vincitori morali di questa Biennale sono stati la freschezza, umiltà, audacia di due giovani registi che trasmettono ancora la voglia di studiare, di ricercare, di bagnarsi in mezzo ai respiri della platea. I vincitori morali Liv Ferracchiati e Giovanni Ortoleva.
1 Roberto Ciccuto in un’intervista ad Antonio Latella all’interno del catalogo BiennaleTeatro 2020
2 Fabiana Iacozzilli, note di regia per lo spettacolo Una cosa enorme. Catalogo BiennaleTeatro 2020