Contrappunto e ritmi serratissimi sono i connotati sonori e visivi di un’eccentrica Peste ritratta da due diegetici e corrosivi talentuosi interpreti e drammaturghi ovvero Luciana Maniaci e Francesco D’Amore.
Un ragazzo, “quasi vivo dal vestiario punk ma d’accatto”, e una dinamica figura femminile, che interpreta la madre e l’incestuosa amante, creano attraverso i loro dialoghi la messa in crisi di ogni valore o presunta massima filosofica e tessono le fittissime trame di un’intrecciata storia di morte che si rivela spietato ed accattivante requiem.La dissacrazione di ogni buon senso viene esibita con immediata efficacia dalla morte di Cris, che già dal nome preannuncia riferimenti ad un più noto nazareno o semplicemente ad un’etimologia che intenda ricalcare i misfatti di un’unzione che si rivela poi essere una condanna, in questo caso consumata nell’adempimento di un mortifero disincanto compiuto nell’asfittico e claustrofobico paese di Duecampane. Anche questo fantasmagorico non-luogo è caratterizzato da un’incredibile metaforica attribuzione proprio nella sua terminologica definizione, che colloca la verità su un piano mai univoco e maieutico.
L’efficacia descrittiva dei suoi abitanti, zombie a cui è concessa la possibilità di vivere per una sola ora al giorno, peraltro coinvolge gli spettatori in una dimensione che ormai connota la quotidianità, fatta di uno o più walking dead da serie tv. Ma l’elettrodomestico che più si addice ad un morto non può non essere il frigorifero, l’unico in grado di preservare dalla corruzione fisica un cadavere. Ed infatti sulla scena campeggia un frigorifero che diviene ora bara ora porta d’accesso ad un mondo salvifico sottolineato dalla metateatralità del brano dei Queen “The show must go on”.
La critica alla tradizione si avverte nella demistificazione del teschio amletico, divenuto ormai solo un cavolo/padre da consumare in un pasto liturgico cullato dalle note assai riconoscibili di Richard Sanderson e della sua “Reality”. Ma le mele si sa sono anche un topos assai caro al mondo delle fiabe, insieme alle belle addormentate. E la figura femminile dotata di radici/piedi che farà innamorare Cris, è una ragazza chiamata “la vegetala”, che nell’unica ora di vita che un incantesimo concede agli abitanti morti di Duecampane, si mette a dormire o parla sbagliando i tempi verbali, perché spaesata dalla temporalità della sua condizione di “quasi viva”. Ma a salvare Cris dai suoi tic e Adelina, sua promessa sposa, dalla morte, sarà quel pane evocato all’inizio della piéce dalla madre che alla fine diviene la formula magica di un postmoderno rito di transustanziazione: “con questo – recita Cris/D’Amore porgendo il cavolo/padre alla sua partner – io ti do la mia carne, il mio sangue, prendine e mangiane… così dimenticheremo tutto, vedrai… Duecampane, la morte, persino mia madre…”
Biografia della Peste
di Francesco D’Amore e Luciana Maniaci
con
Francesco D’Amore
Luciana Maniaci
Costumi: Alessandra Berardi
Regia e scenofonia: Roberto Tarasco
Produzione: Nidodiragno
In tournée