L’8 maggio 2004 alla Spezia insieme alla compianta Alessandra Giuntoni, sorella più che amica, organizzammo l’evento conferenza-spettacolo alla Dialma Ruggiero La Logica della Passione: conferenza dell’Institutet för Scenkonst. Vennero da tutta Italia a vedere il lavoro di Magdalena Pietruska e Roger Rollin. Sono felice che l’evento a distanza di dieci anni precisi si ripeta a Genova grazie all’iniziativa di una delle più interessanti compagnie di ricerca italiane, TEATRO AKROPOLIS. E ho piacere di ripubblicare quello che con Alessandra scrivemmo per promuovere l’iniziativa. In particolare la sua profondissima intervista.
“La creazione è l’espressione suprema dell’essere umano. La ricerca sull’arte dell’attore, cioè nel campo dell’espressione artistica dove l’artista e la sua opera sono inseparabili, va oltre lo studio dei segreti del mestiere. Essa abbraccia la problematica della condizione umana, la conoscenza e la meditazione dell’essere uomo. Una ricerca di una possibile comunità al di là delle frontiere della propria ignoranza e della propria mediocrità. Una ricerca che segue una sola logica: la Logica della Passione”.
Quando nel 1991 Magdalena Pietruska scriveva queste parole l’Institutet för Scenkonst si era da poco trasferito in Italia, presso il Teatro della Rosa di Pontremoli, dopo un periodo nomade che lo aveva portato a lavorare in tutta Europa. Nato in Svezia nel 1971 ad opera del direttore artistico Ingemar Lindh, l’Institutet för Scenkonst appartiene al panorama del teatro di ricerca che a partire dagli anni sessanta ebbe il merito di rinnovare un teatro ormai sclerotizzato nella forme della tradizione. Di questa ricerca e sperimentazione verso nuovi moduli linguistici e pedagogici, l’Institutet för Scenkonst rappresenta una delle vette più alte, sicuramente quella che meno di altre si è prestata a strumentalizzazioni o a facili operazioni commerciali. Dopo la giovanile formazione presso L’Ecole de Mime di Etienne Decroux, le collaborazioni con il Teatr Laboratorium di Jerzy Grotowski a Wroclaw e con l’Odin Teatret a Holstebro, le ricerche di Lindh si concentrarono sui principi dell’improvvisazione collettiva e sullo spettacolo inteso come processo in cui l’attore autonomo, disinteressato, in grado di autogestirsi, è il maggiore responsabile dell’avvenimento teatrale. Per allenare il suo strumento, ovvero il corpo e la voce, l’attore dell’Institutet för Scenkonst si sottopone a un duro allenamento quotidiano basato su tecniche codificate quali mimo, Kung-Fu, Tai-Chi, calligrafia, esercizi di educazione musicale, ma anche su esercizi fisici, acrobatici, plastici, biomeccanici. Ciò gli permette di concentrasi sulla precisione dell’atto mentale che accompagna l’azione fisica, applicando i principi dell’isometria, dell’alternanza, dell’intenzione individuati nel corso della ricerca. Grazie a questa perfezione tecnica l’attore riesce raggiungere una presenza fisica vibrante che fa dello spettacolo un atto vitale, un momento d’incontro autentico con lo spettatore.
Intervista di Alessandra Giuntoni:
Il nomadismo ha contraddistinto buona parte dell’attività dei gruppi del teatro di ricerca che, a partire dagli anni sessanta, presero ad esportare i propri spettacoli in tutto il mondo, confrontandosi con situazioni sociali particolarmente estreme, facendo del viaggio una modalità fondamentale del proprio lavoro. Penso all’Odin Teatret e alla sua politica del baratto culturale, ma non solo; penso al Living Theater, gruppo esule e perseguitato politicamente, ai gruppi attivisti dell’America Latina come il Teatro de Los Andes, a tutti quelle formazioni che fecero della dimensione anarchica e comunitaria del teatro la propria dichiarazione di intenti e di poetica. L’appartenenza dell’Institutet för Scenkonst a questa comunità teatrale, etica e vocazionale, animata da rigore e tensione e dalla volontà di aprirsi a contesti socio-culturali ‘altri’, è indubbia. Volete spiegarci il valore di questa scelta?
ROGER ROLIN Tutti al giorno d’oggi sono informati del fatto che il mondo è rotondo ma finché questa rimane soltanto un’informazione teorica, ogni paese, ogni situazione sociale avrà la tendenza a vivere come se il mondo fosse piatto. Ciò che bisogna chiedersi è: cosa significa che il mondo è rotondo nella sua praticità? E’ una cosa importantissima non soltanto per l’artista ma per tutta la società; penso che faccia parte della formazione dell’uomo. Non basta essere informato di questo fatto, queste informazioni devono essere trasformate in esperienza vissuta. Il viaggio, l’incontro con le altre culture – e non sto parlando, ovviamente, della dimensione del turista – il mettere la propria cultura in dialogo con il mondo, è fondamentale per ogni uomo. Noi abbiamo fatto questa scelta anche come artisti. Non è stata solo una scelta per riuscire a sopravvivere materialmente ma, soprattutto, per riuscire a sopravvivere spiritualmente, per riuscire a realizzare i nostri sogni artistici, di ricerca, di incontro. E questo ci ha portato a una specie di nomadismo anche se la scelta di essere nomadi non è mai stata fatta direttamente; noi abbiamo solo scelto di mettere la nostra cultura in dialogo con altre realtà, questa è la scelta presa direttamente.
MAGDALENA PIETRUSKA La scelta di un lavoro teatrale che parta dalla letteratura drammatica, dal teatro concepito come messinscena della letteratura, è per forza nazionalista. Ma una scelta di lavoro teatrale che si basa sull’attore e sull’incontro tra gli uomini, implica necessariamente l’incontro con tutti gli uomini. E’ un teatro senza frontiere che è cominciato molto prima dell’Europa unita, che poi significa soltanto avere delle frontiere un po’ spostate. In un lavoro teatrale come il nostro avviene un incontro tra le diverse culture, c’è il bisogno di mettersi in dialogo con l’umanità senza frontiere, di non partecipare al mondo nei cosiddetti centri culturali che molto spesso s’identificano con i centri di potere politico ed economico. La cultura ufficiale rifiuta questa cultura minoritaria che non si concentra nei grossi centri di potere, nelle metropoli ecc.. C’è un articolo di Fabrizio Cruciani intitolato “Fuggire dal Centro” che parla di Copeau e della storia del teatro di ricerca e che individua un punto comune tra i gruppi come il nostro proprio nella volontà di stabilirsi alla periferia del mondo culturale e politico, laddove non c’è contaminazione con la cultura già promossa, già selezionata come cultura ufficiale e che, proprio per questo, non è più viva, non può muoversi negli spazi sconosciuti dove la ricerca per definizione deve andare.
Questo avviene anche a livello sociale: la scelta di stabilirsi ai margini, nelle campagne, nei piccoli centri è prima di tutto la volontà di non essere tentati dalla città, dalla civilizzazione, ma di adottare questi posti come la nostra casa. La domanda che bisogna porsi è: che cosa è centro, che cosa è periferia? Se noi pensiamo che il centro è lì dove siamo noi perché portiamo qualcosa con noi, allora la periferia e il centro si spostano insieme a noi e ci si apre all’incontro con le realtà che si creano sul posto. Un nomade mette la sua casa lì dove si trova adesso, per questo periodo; non è mai turista ma mette le sue radici e vive con chi c’è intorno; perciò è sempre nel suo centro, dialoga con ciò che in questo momento è centro. Questa è un’azione politiceliminare la mistificazione che vuole che i centri economici e di potere siano anche centri culturali mentre la maggioranza della gente vive fuori da questi centri.
Dopo la lunga parentesi italiana, non priva di ipocrisie e di strumentalizzazioni da parte delle istituzioni locali, l’Institutet rientra in Svezia dove rileva un rustico da ristrutturare e sistemare come “casa”, come luogo di lavoro e d’incontro tra artisti, come sede per la propria attività pedagogica. Cosa è successo: l’Institutet för Scenkonst ha finalmente messo radici? Qual è l’attività attuale dell’Institutet?
ROGER ROLIN Non abbiamo mai cercato di mettere le radici nel luogo ma nel nostro lavoro: queste sono le nostre radici e per il momento sembra che c’è la possibilità di svolgere il nostro lavoro in Svezia dove abbiamo trovato casa, se sarà per sempre non ha nessuna importanza. Lì cerchiamo di continuare la nostra attività di sempre come la pedagogia, la ricerca artistica e la produzione di spettacoli teatrali. Come vedi anche noi siamo conservatori….
MAGDALENA PIETRUSKA Non c’è stata una parentesi italiana, ogni luogo è una parentesi e ogni luogo è una sede stabile. Il posto dove prendiamo sede è ‘per sempre’ anche se può finire domani, se lo decidiamo. Perciò anche Pontremoli non è stata una parentesi ma uno dei luoghi dove avevamo il centro e adesso lo abbiamo in Svezia. Dal punto di vista del lavoro svolto è lo stesso anche se in altro modo. A Pontremoli eravamo in affitto e dipendenti dalle decisioni di altri; adesso in Svezia la casa è di nostra proprietà e allora siamo padroni del nostro tempo, delle nostre decisioni completamente. Se questo durerà in eterno ti rispondo: adesso sì, domani forse cambieremo idea.
Che dire dei tredici anni trascorsi a Pontremoli, dello sfratto dal Teatro della Rosa, dello snervante rimpallo tra gli enti locali impegnati nel vergognoso balletto dello scarica barile a fingere di preoccuparsi per le sorti dell’Institutet… insomma di tutte le nefandezze che hanno accompagnato il soggiorno italiano, ne vogliamo parlare o è preferibile stendere un pietoso velo?
A mio parere resta poco da dire circa la sottocultura di certa provincia italiana e l’ottusità dei suoi amministratori; certo è che Pontremoli non meritava l’onore di ospitare un centro di ricerca internazionale riconosciuto dalle maggiori università europee e frequentato da allievi e studiosi provenienti da tutto il mondo. A noi, che con la realtà di questo paese ci facciamo i conti quotidianamente, mancano le parole per denunciare la degenerazione di un sistema teatrale che è sempre più preoccupato di foraggiare carrozzoni pubblici o privati in odore di conflitto d’interessi e che promuove esclusivamente “prodotti orientati al mercato” disconoscendo il valore dei gruppi che hanno fatto la storia del Teatro novecentesco. E’ di pochi mesi fa la notizia che il Living Theater ha lasciato Rocchetta Ligure dove aveva sede da alcuni anni, perché l’amministrazione comunale gli ha addebitato un affitto impossibile da sostenere. E così l’ultraottantenne Judith Malina riparte con il suo gruppo alla volta di New York per dare una sede al Living Theater.
Dunque, la storia continua…
ROGER ROLIN Storicamente viviamo un tempo che sembra essere la fine dell’uomo politico e, se vogliamo una speranza per la nostra società, la figura dell’uomo politico deve trasformarsi perché nel mondo, parlando in generale, si vede che la politica non è altro che una grande tragedia. E Pontremoli in questo non faceva eccezione.
MAGDALENA PIETRUSKA Pontremoli ci tocca molto perché è stata la storia vissuta sulla nostra pelle ma non è l’unica, purtroppo. E’ una tendenza generale della nostra società quella di andare verso le cose fasulle, di annullare la dimensione umana dalla nostra vita e lo stare insieme su questa terra dove la cultura e l’arte sono una cosa essenziale per sopravvivere e non possiamo vivere senza. Le leggi di mercato però, la direzione che questa società ha imboccato e accelerato, stanno all’opposto; tutto segue la logica delle cose da consumare e buttare, dalle stelle e stellette televisive al protagonismo sfrenato che è proprio svergognato perché fa a meno delle basi su cui ci si può basare per diventare protagonisti… basta comparire in TV per diventare famosi. La vera tragedia è la strada imboccata dalla nostra società, la nostra storia è solo una conferma di tutto questo. A Pontremoli era tutto molto più visibile perché è un posto piccolo e così gli errori erano evidenti; il modo di usare il consenso da parte degli amministratori è solo un pretesto per i giochi di potere. E purtroppo la storia si ripete: tutto ciò che sta fuori dalla logica di mercato viene espulso. L’evoluzione è sempre ostacolata da ciò che è realizzabile ora e subito, da ciò che è convertibile in denaro, dai protagonismi fasulli. E’ questa la tragedia della nostra società, adesso.
L’attività di ricerca non ha più spazio e non ne può avere: ciò che non può dare subito dei risultati, in quanto necessita di un tempo che magari supera lo spazio di una vita, è un investimento troppo impegnativo e socialmente inaccettabile. Mentre sappiamo quanto i progetti che pensano limitatamente, sia a livello ecologico, politico, filosofico siano pericolosissimi.
Sulla scorta di queste riflessioni, mi domando e vi domando, cosa vuol dire oggi continuare a privilegiare la dimensione pedagogica del teatro, lottare per la conquista di spazi destinati alla sperimentazione, scegliere di ignorare i diktat dell’industria culturale? Esiste la possibilità reale, per un centro come l’Institutet för Scenkonst, di fare resistenza attiva? Qual’è la valenza etico-politica, la forza rivoluzionaria direi, di un teatro capace di perseguire i propri scopi di ricerca ed autopedagogia senza cedere alla logica di mercato?
MAGDALENA PIETRUSKA Oggi è ancora più importante, per chi ha scelto di lavorare nel teatro, in quell’arte cioè che come sua essenza prevede l’incontro tra uomo e uomo e che si esprime tramite l’uomo. Non tradire questa essenza del teatro è combattere, lottare per tutto ciò che ha valore umano. Non si tratta di una nostalgia per ciò che è perduto ma di insistere sul valore di ciò che è universale, oltre il tempo, oltre le leggi fatte ad hoc perché hanno utilità contingente. In questo senso il lavoro teatrale non può essere una cosa pragmatica perché si basa su una cosa molto più importante. Per chi come noi lavora nel teatro si tratta di non stancarsi, di insistere, di non tradire, costi quel che costi, di opporre come un contrappunto o una possibilità o un’evidenza che c’è un altro modo di essere, di esistere, di vedere. Di creare un mondo diverso da quello in cui i giovani oggi devono vivere.
ROGER ROLIN La storia umana non può mai smettere di chiedersi ‘che cos’è un uomo’ questo è fondamentale. Non sappiamo mai, in fondo, che cos’è un uomo e bisogna quindi cercare di domandarselo e darsi delle risposte. Oggi viviamo questo conflitto se l’uomo è per il mercato o se il mercato è per l’uomo; questa domanda sta diventando assillante a livello etico. Se esiste la possibilità reale per un centro come l’Institutet, la risposta è sì e no: la possibilità reale è la lotta che ogni giorno bisogna fare, questa resistenza, questa scelta etico-politica di cui parli, è una manifestazione che si fa ogni giorno e non è qualcosa che si può conquistare definitivamente finché ci sarà la domanda che cos’è un uomo.
Adesso siete di nuovo in Italia per un progetto artistico a cura dei Teatri del Vento che vi vede nella veste di registi. A partire da maggio assisteremo, dunque, alla messinscena di “Tra verità, menzogna e desiderio”, spettacolo dedicato all’opera di Pier Paolo Pasolini, allestito al termine di un percorso trimestrale con sei attori tutti provenienti da altri progetti pedagogici dell’Institutet . Cosa potete dirci sul lavoro che state facendo, sulle modalità con cui vi state rapportando all’opera e alla figura di Pasolini? Quali sono le difficoltà, per chi proviene dalla cultura nordeuropea, ad approcciare un intellettuale così fortemente legato alla storia italiana, alle sue problematiche politiche, all’analisi socio-antropologica dell’Italia postbellica? Come pensate di “incontrare i suoi testi”?
MAGDALENA PIETRUSKA Io non ho mai percepito Pasolini come legato alla storia italiana, per me Pasolini non appartiene alla storia di una nazione. Ho conosciuto Pasolini tramite i suoi film, non avevo mai letto niente e, forse, nella poesia, nella prosa, nella saggistica è più legato alla storia italiana. Però il suo pensiero, quello non è esclusivamente italiano, anzi… Per me è molto europeo, universale, perché dice delle cose importantissime che vanno oltre i confini dell’Italia. Si serve del suo paese come esempio perché è quello che conosce meglio ma la sua riflessione verte sulla direzione imboccata dalla società che lui già aveva visto negli anni 60-70. Era in atto un cambiamento fondamentale della rotta sociale che pochi, tra gli intellettuali, hanno percepito così lucidamente. Lui è stato uno dei pochi che hanno saputo riconoscere certe dinamiche ancora nascoste coperte da facili entusiasmi anche comprensibili: erano anni ricchissimi per il movimento sociale, politico, culturale, perciò il vedere così chiaramente il disastro insito nelle scelte che si stavano compiendo era difficile per molti, lui l’ha fatto. E’ questo che è interessante per me nella figura di Pasolini. Tutte le storie tipicamente italiane, le polemiche tra lui e personaggi appartenenti al panorama politico dell’epoca, sono soltanto esempi concreti della sua analisi che parte da lì per mostrare cose che servono anche a noi nordeuropei e che servono soprattutto oggi. In questo senso non è difficile entusiasmarsi per Pasolini e oggi, grazie a questo progetto, ho potuto leggere tante cose che non conoscevo; abbiamo visto tutti i film cercando di capire quanto era grande e pericoloso e scomodo. La sua storia è la storia tipica di un intellettuale, dell’uomo di cultura, dell’artista non compreso, non perché difficile, ma perché c’è sempre un rifiuto di capire i precursori. Si dice di Pasolini che era un profeta, un artista che vede in prospettiva lunga, le cui antenne captano ciò che sta per succedere e cercano, come le Cassandre, di avvertire gli altri ma non possono essere ascoltate perché la gente, i politici sono sempre ciechi e accecati dall’oggi come unica realtà, sono incapaci di fare un’analisi che dal passato si proietti sul futuro e attraversi il presente, sono incapaci di riconoscere l’essenza delle cose al di là delle forme. Quello che Pasolini dice sul fascismo e sul neofascismo è un esempio quasi scolastico di chiarezzsi può riconoscere lo stesso fenomeno sotto una forma che sembra contraria ma che invece lui vede che non lo è. Di fatto è la stessa cosa sotto un’altra forma e perciò molto più pericolosa perché meno riconoscibile. L’analisi di Pasolini è l’analisi di un vero intellettuale che non si accontenta delle apparenze, segno distintivo dell’oggi. Una cosa fondamentale per il lavoro dell’artista, come per l’intellettuale, è quella di cercare di riconoscere l’equivalenza delle cose nella loro essenza al di là del mutare delle forme, altrimenti siamo sempre in balìa delle forme sfuggenti, sempre nuove. L’adorazione del nuovo, l’acclamazione delle cose fantastiche, nuove, mai viste e che in realtà erano già inattuali anni fa e con un ritocco cosmetico sono diventate nuove. Pasolini non è interessato a questo, vede oltre la forma. E’ la sua stessa esistenza, con questo tipo di sguardo acuto, che rappresenta una minaccia per la società di allora e per la società di oggi; oggi ancora di più perché le sue parole una volta erano meno comprensibili, si poteva dire che il suo era un delirio o piagnisteo, come tanti hanno detto. Oggi non è più possibile ignorarlo.
Come sono stati ‘trattati’ i testi di Pasolini?
MAGDALENA PIETRUSKA Abbiamo chiesto agli attori di individuare in tutta l’opera di Pasolini (teatro, prosa, poesia, articoli giornalistici) i frammenti, le frasi che hanno per loro una risonanza di qualche tipo e di farlo in modo individuale e poi di mettere questo a disposizione del gruppo. In seguito ci hanno sottoposto il materiale selezionato e su questo abbiamo fatto un’ulteriore selezione. Non ci sono delle opere, dei testi integrali, i testi sono montati per lo spettacolo e provati nell’azione con gli attori tramite il loro fare. Perciò il montaggio dei testi segue il nostro spettacolo non le opere di Pasolini. L’incontro non è tanto con il linguaggio letterario di Pasolini ma con il suo mondo, con i suoi temi ricorrenti. A ben vedere tutti gli autori sono molto “ripetitivi” e ci sono temi che tornano. Siamo partiti da come gli attori vedevano Pasolini, dal loro Pasolini e poi siamo arrivati al nostro Pasolini attraverso la lettura e il lavoro diretto con gli attori, evitando soprattutto la storia troppo italiana, focalizzando il Pasolini universale più che italiano. Qualcuno ha detto che Pasolini è ossessionato da alcuni temi dominanti quali la religione e il comunismo, e lui risponde: no, dalla realtà.
ROGER ROLIN Bisogna infatti ricercare sempre la realtà, il reale che è dentro ad ogni cosa, anche alla finzione. Questa è l’aspetto che abbiamo scoperto di condividere con Pasolini; anche noi abbiamo sempre ricercato questo e adesso, più conosco Pasolini e la sua opera, più mi ci riconosco. Il metodo per “incontrare” i suoi testi è, come dice Magda, tramite gli attori, senza anteporre un’analisi nostra dei testi. Cercando il reale, cercando qual è il mondo di questi testi , non importa se nella finzione, nell’artificio, nel teatrale; cercando questo reale si trova un equivalente nel testo ed è quello che vogliamo esprimere. Noi non cerchiamo di rifare artisticamente qualcosa che ha già fatto Pasolini. Quello che ci interessa è vedere quale risonanza Pasolini può avere nel nostro incontro.
I “Padri Fondatori” dell’avanguardia teatrale, da Stanislavskij a Mejerchol’d, da Craig a Copeau intesero rinnovare il teatro attraverso la fondazione di un teatro-laboratorio, di uno spazio fisico e mentale dedicato all’approfondimento della situazione pedagogica in cui l’accento del fare teatro è focalizzata sul processo più che sul suo oggetto. Il laboratorio, la scuola, l’atelier, dove attori e regista lavorano insieme sul training e sulla preparazione dello spettacolo, diventano la situazione in cui si condensa il significato del teatro. Qui il ruolo del regista-trainer, lo spazio/tempo separato dalla quotidianità, una codificazione tecnica e una pratica metodica, fanno del laboratorio un vero e proprio vivaio capace di rinnovare il sentire, di modificare l’esperienza sia dell’attore che dello spettatore, destrutturando il modo ordinario di percepire il mondo per accedere a piani diversi e più profondi di realtà.
A proposito di questa ‘rifondazione antropologica’ scriveva Ingemar Lindh: “Tramite il tangibile si demolisce l’argine intorno all’inafferrabile, si ricongiunge il nostro essere più profondo con gli altri e con l’altro, su di un livello dove ciò è possibile, là dove le azioni sono universali; ci si rende trasparenti” (Lindh Ingemar, Pietre di Guado, Bandecchi & Vivaldi, Pontedera 1998, pg.13).
Chi, come me, ha ancora negli occhi le immagini di Saffo e di Popolo, nella cornice del vecchio Teatro della Rosa, non può che rimpiangere i momenti di autentica poesia che scaturivano dalla presenza dell’attore, da una consapevolezza corporea bruciante e assoluta, rintracciabile anche nei momenti di massima sospensione. Vorrei che ci parlaste di questo elemento impalpabile che fa sì che il momento dello spettacolo sia un incontro vero e profondo tra attore e spettatore, un atto vitale unico e irripetibile, un’esperienza di vera e propria sacralità.
ROGER ROLIN In sintesi estrema posso dirti che quello di cui parli è un attore molto preparato, che presenta la sua realtà nell’incontro con il pubblico e lo fa in modo assolutamente privo di qualsiasi manipolazione, qualsiasi speculazione. L’incontro stesso è la cosa che si desidera non la risonanza dell’incontro, il dove mi porta; il pubblico deve essere libero di venire nel modo che sente e deve essere libero di lasciare questo incontro nel modo che vuole. L’attore deve essere contento del momento in cui questo incontro è avvenuto, poi, eventualmente, posso notare anche le conseguenze che però non possono mai essere calcolate in anticipo.
MAGDALENA PIETRUSKA lo spettatore è un invitato, è il nostro ospite e per questo non può essere manipolato, come dice Roger, ma deve essere trattato con tutto rispetto. L’attore deve essere preparato come in tutti i mestieri; il suo strumento di lavoro è la corporeità, la voce, la vita interiore. Tramite il lavoro sullo strumento-corpo, l’attore lavora sulla coscienza, sulla sua consapevolezza di essere uomo, unico, uguale agli altri ma unico, di quella unicità in cui ci possiamo ritrovare tutti su di un piano universale. Per l’attore che si dedica a questa mestiere è necessario, tramite le cose tangibili di cui parla Ingemar (corpo, voce, movimento), arrivare ad accrescere la sua consapevolezza di essere uomo per potere incontrare lo spettatore. Ciò porta a creare un incontro tramite l’autore, i suoi testi, il suo mondo, un incontro tra individui sul piano universale.
ROGER ROLIN Noi non ci poniamo mai la domanda “che cosa piace al pubblico”, questa è già una domanda manipolativa, noi ci chiediamo sempre e soltanto cosa vogliamo dare, cosa vogliamo dire e poi il pubblico è libero di reagire come vuole. In questo senso presentiamo la nostra realtà nella sua essenza.
MAGDALENA PIETRUSKA Non è la realtà dell’attore come persona privata ma la realtà della mia storia, della mia cultura, degli archetipi che, nel mio incontro con un autore, risuonano in me: questo io porto allo spettatore per vedere se risuonano anche a lui. In questo senso la preparazione a cui l’attore si sottopone non è finalizzata a diventare bravo o tecnicamente virtuoso. Io attore devo saper utilizzare il mio strumento per diventare più cosciente di ciò che sta oltre la mia vanità personale, oltre i miei problemi privati, le mie preoccupazioni, per accedere ad un livello dove posso incontrare un’altra persona, un altro individuo. La sacralità di cui parli è data dal fatto che, in questo tipo di teatro, l’incontro avviene oltre tutto quello che viviamo quotidianamente: la paura degli altri, il razzismo, la vanità, le psicologie, tutte quelle cose con cui combattiamo ogni giorno come persone private e che, in grande, sono ciò che conduce alle guerre. I potenti hanno nelle mani il destino di tutta la terra, è loro facoltà schiacciare o non schiacciare il bottone, decidere i buttare o no le bombe, sembrano dei bambini mossi dalle proprie psicologie, dalla vanità, dagli interessi privati e questa è una tragedia. Per un attore è ovvio che non è lì che può accadere l’incontro tra individui; il sacro è al di là di tutto questo, incontrare vuol dire porsi al di là delle differenze, delle diversità. Nella realtà ci sono solo diversità organiche, di cultura, di etnie; tutto ciò è organico, è ricco, ed è questo il nostro livello di lavoro, di possibile incontro; è questo il livello di lavoro per meditare sulle cose che sono importanti, il piano su cui si può dialogare senza doversi convincere reciprocamente o polemizzare. In questo senso Pasolini è molto ricco, ha cercato veramente di arrivare a questo livello d’incontro, a volte anche la sua omosessualità è stata uno strumento facile per il suo entourage per non ascoltare quello che lui aveva da dire.
Lo scopo del training è quello di allenare lo strumento corpo, esaminandone tutte le possibilità, le articolazioni, le leggi fisiche che lo governano. Ma il virtuosismo, nel metodo dell’Institutet, è un pericolo sempre in agguato da rifuggire. Quello che serve è innescare un processo psicofisico capace di influenzare la struttura mentale dell’attore mettendolo in grado di pilotare i suoi atti fisici, libero da automatismi e paure. Dunque il training fisico come “laboratorio personale dell’attore”, paradossale strumento di liberazione e di de-addestramento. Quali sono i vari tipi di training messi a punto dall’Institutet, qual’è la loro derivazione e la loro finalità, in cosa consiste la sintesi utilizzata attualmente?
MAGDALENA PIETRUSKA Il training fisico dell’Institutet deriva direttamente dal training che è stato elaborato da Grotowski che poi Ingemar ha rielaborato con i suoi attori e adattato alle nostre esigenze di lavoro. Esso comprendeva tutti gli esercizi che c’erano nel bagaglio di lavoro ricevuto da Grotowski (fisici, plastici, biomeccanici, acrobatici ecc) più la tecnica del Mimo Corporeo che deriva da Decroux in quanto maestro di Ingemar. E’ una combinazione di questi due tipi di allenamento: un training di tipo accademico e uno di tipo empirico. Il primo è basato su tecniche codificate quale mimo, Kung-Fu, Tai-Chi, calligrafia, esercizi di educazione musicale; l’altro si basa su esercizi fisici, acrobatici, plastici, biomeccanici elaborati e modificati.
I principi del mimo, così come Decroux li ha enunciati, ci servirono a capire le leggi fisiche e geometriche del corpo, del suo rapporto con lo spazio. Il movimento contemporaneo di diverse parti del corpo, infatti, crea una dialettica drammatica intrinseca al corpo stesso; fa sì che il corpo generi le proprie contraddizioni, crei il proprio dialogo tramite causa-effetto, shock e risonanza. In questo senso la tecnica del mimo è stata per noi una meditazione pratica, una teoria pratica per la consapevolezza globale di sé e per il lavoro di costruzione dello spettacolo teatrale. Questo passaggio però è avvenuto dopo un lungo periodo di pratica mimo; il training fisico invece, nella forma proposta da Grotowski, lo abbiamo abbandonato abbastanza presto. Ingemar ha incominciato da subito a lavorare con tutti gli esercizi nel gruppo utilizzandoli, non già come una tecnica sistematica, ma come proposte da seguire e sviluppare. Così il nostro training si è orientato soprattutto sull’ascolto e non è mai stato fine a se stesso, separato dal lavoro artistico o creativo, ma era già un percorso di creazione: non si faceva la distinzione tra il lavoro più tecnico e il lavoro creativo. Lavorando nel gruppo sul flusso di esercizi, sull’ascolto e sulla ritmo-dinamica, si sottoponevano gli esercizi ad un trattamento diverso rispetto al training fisico classico. Questo è stato il punto a partire dal quale, nella nostra ricerca sul lavoro per l’attore, abbiamo scoperto tanti altri tipi di training che abbiamo comunque continuato a dividere in training accademico ed empirico.
Tra le tecniche appartenenti al training accademico hai parlato di calligrafia, cosa intendi?
MAGDALENA PIETRUSKA Tutte le tecniche utilizzate servivano per acquisire una precisione non solo corporea ma soprattutto per esercitarsi nella precisione mentale tramite la pratica. La calligrafia è un vecchio esercizio dove scrivere la lettera è il risultato di un atto mentale, di uno sforzo di precisione per arrivare a scrivere il segno preciso e, in questo senso, è una forma di meditazione.
Una delle prime ricerche sul training libero, non codificato, è stata quella rivolta allasuper-energia, cioè ad un flusso di energia che non viene manipolata al fine di ottenere un comportamento corporeo prestabilito. E’ una ricerca sui principi della spontaneità applicata alla situazione di ripetitività in cui è costretto a lavorare l’attore. Ne nacque un nuovo tipo di training che si chiamò dans-training cioè training di danza perché utilizzavamo la musica registrata. La musica rock, grazie ai suoi ritmi esplosivi, favoriva l’unico compito dell’esercizio che era quello di esplodere nello spazio nel modo più forte, più esteso possibile senza appoggiarsi a nessuna tecnica prestabilita. A quel punto subentra la tecnica organica che il corpo possiede e che utilizza per risolvere il problema di non ammazzarsi per questa esplosione… Un po’ scherzosamente Ingemar diceva che è il ‘principio della buccia di banana’ nel senso che se uno scivola sulla buccia di banana il corpo stesso cerca di salvare la vita; c’è una tecnica di sopravvivenza che il corpo ha e che l’organismo attiva quando agisce e che non ha bisogno di una forma precisa, la forma che ne esce è quella adeguata alla situazione.
Un altro tipo di training utilizzato è quello sull’isometria, quello derivante cioè dall’allenamento degli atleti negli anni cinquanta che sostituirono allo sforzo in movimento lo sforzo nell’immobilità. Il training isometrico consente di preservare l’intensità dell’azione nell’immobilità; anch’esso va verso l’allenamento della precisione mentale o, meglio, verso quella che noi chiamiamo intenzione per cui un’azione corporea si può arrestare nello spazio in qualsiasi momento ma deve continuare mentalmente. E’ un’equivalenza di quello che troviamo nelle arti marziali che utilizzano il non-movimento, la potenzialità di movimento che c’è nel corpo immobile.
ROGER ROLIN C’è stato poi il lavoro sull’alternanza, altro principio importantissimo per il lavoro dell’attore, che scongiura il pericolo della monotonia dell’azione. Tramite l’alternanza l’attore è costretto a sorprendersi e il corpo a ritrovare l’autenticità dei propri atti. L’alternanza consiste nella capacità dell’attore di entrare in qualunque momento nei propri materiali personali, interrompendone lo sviluppo premeditato, cambiando la dinamica della sua azione. Tramite il principio dell’alternanza ci si allena a sentire che l’azione e la reazione hanno la stessa qualità; non c’è una reazione all’esterno ma è la reazione interna all’attore ciò che provoca l’azione.
MAGDALENA PIETRUSKA E’ fondamentale per un attore il poter agire senza dover avere un motivo, senza una logica di causa-effetto che poi è una logica lineare. Il lavoro sull’alternanza è un allenamento per rompere questa linearità, questa ricerca di una consequenzialità che serve a spiegare la mia azione tramite quello che ho fatto prima. Il tentativo è quello di poter essere nel momento presente, con quello che sto facendo adesso, senza prevedere il mio passo successivo e senza utilizzare il mio passo precedente come causa di quello che sto facendo adesso. Bisogna ritrovare il tipo di meccanica che c’è nella vita dove si agisce adeguandosi alla situazione di adesso: io non so che il telefono squillerà tra un secondo e perciò adesso sto qui parlando, bevendo qualcosa o fumando, nel momento in cui squilla il telefono mi alzo e vado, cambiando subito il tipo della mia azione e di dinamica per adeguarmi a quel momento lì. Quando è terminata la telefonata non porto quella dinamica al tavolo per parlare con te ma siamo di nuovo in un’altra situazione. Nella vita si pensa che ci siano dei motivi esterni per cui accade qualcosa, il telefono che squilla è uno stimolo esterno e la mia è soltanto la reazione a questo stimolo; noi spieghiamo cosi le nostre reazioni, i nostri cambi di dinamica. Ma se osserviamo un bambino tutto questo è meno spiegabile: ad un certo punto lui cambia completamente la sua attività, si disinteressa da una cosa e va subito a farne un’altra, gratuitamente, senza motivo. In teatro non abbiamo nessun motivo per agire in un modo anziché in un altro, il motivo lo dobbiamo inventare e il rischio è quello che io conosca già l’evoluzione del mio spettacolo, so come finisce ecc.. Questo rappresenta un grosso pericolo per l’attore: non agire seguendo la meccanica della vita in cui capitano delle cose e l’azione si adegua ad esse, ma agire creandosi delle finte causalità che seguono una logica intellettuale, letteraria. A quel punto il teatro è caricatura: se devo fare Ofelia inAmleto comincio già dalla prima scena a fare quella che tra poco morirà ecc., secondo una logica che non appartiene alla vita in cui non sappiamo cosa ci succederà tra un secondo. E perciò l’allenamento sull’alternanza serve all’attore per disfarsi dell’abitudine intellettuale a spiegarsi le causalità e per avvicinarsi invece all’essere totalmente in quello che fa, creando un altro tipo di logica che è molto più complicata e che va in direzioni diverse, come è la logica della vita.
Il training che insegnate adesso agli allievi è detto “non codificato”. In cosa consiste?
MAGDALENA PIETRUSKA L’allenamento non codificato, come nel caso del training di danza, è un allenamento molto libero. All’attore si dà soltanto il compito, molto impreciso, di usare per esempio la mano oppure la testa, oppure i piedi, cercando di ‘essere con’ quella parte del corpo e progettare il suo pensiero, il suo desiderio, la direzione mentale attraverso la mano. Si tratta di fare un lavoro che non è di tipo ginnico, ma la mano diventa il mezzo, il veicolo attraverso il quale io mi progetto nello spazio. Non c’è una forma necessaria che l’esercizio deve raggiungere; l’attore è libero di usare la mano, la testa nel modo in cui vuole, con la dinamica, con il ritmo che vuole. Così facendo si stimola subito il meccanismo creativo dell’attore; da subito io mi progetto nello spazio con il mio desiderio e non mi concentro su come fare l’esercizio. Abbiamo constatato che questo è il modo più veloce di accedere al processo creativo dell’attore.
Comunque, si può dire che tutti questi tipi di allenamento hanno seguito una linea molto precisIngemar aveva come maestro Decroux che ha condotto il suo lavoro verso una precisione corporea portata fino all’assurdo oltre la quale non è possibile andare. L’esigenza che molti uomini di teatro, ricercatori come Grotowski, hanno sentito era quella di trovare un allenamento per l’attore che consentisse di raggiungere la precisione corporea tramite la quale si può accedere alla precisione mentale. Tutto questo Ingemar l’aveva già fatto con Decroux. Quando ha incominciato a lavorare con noi, con i suoi attori dell’Institutet, l’interesse non era più posto sulla ricerca della precisione fisica ma su quella della precisione mentale, dall’inizio. E’ per questo che anche l’allenamento preso a prestito da altre realtà non era più trattato allo stesso modo di un training fisico ma si andava a cercare altra tipo di qualità: tutta la ricerca si è rivolta verso la precisione mentale che ha completamente cambiato il modo di lavorare dell’attore. Noi non inseguiamo la forma del corpo come riferimento fisico che può aiutare l’attore a riprendere un’azione fedelmente ma che diventa un modo per riempire una forma di un contenuto. Quello che abbiamo sperimentato con Ingemar era la ricerca di riprendere fedelmente l’atto mentale, l’intenzione, lasciando che il corpo si adegui ad esso; se io faccio l’atto, la forma corporea diventerà molto precisa e adeguata a quello che sto facendo. Ogni atto del nostro lavoro è contenuto e forma insieme.
Qual è il passaggio dal training codificato al lavoro sul materiale personale?
MAGDALENA PIETRUSKA Schematicamente si può dire che il training codificato era un mezzo per arrivare a capire i meccanismi della creazione artistica mentre il lavoro sul materiale personale è già un mezzo per creare e un mezzo di elaborazione artistica. Il motivo per cui abbiamo abbandonato gli esercizi del training codificato abbastanza in fretta era questo: il passaggio dalla comprensione di quei meccanismi alla loro messa in pratica non è così automatico. Quando si lavora con gli esercizi, cioè con azioni che non comportano un coinvolgimento psicologico o uno sforzo interpretativo, l’attore è libero dalla preoccupazione di cosa vuol dire, cosa significa quello che fa, si limita a lavorare sul senso dell’azione. Questo ‘disinteresse’ lo aiuta ad agire senza motivazioni, senza doversi preoccupare dell’interpretazione, mentre quando lavora su azioni che non sono semplici esercizi questa comprensione acquisita va perduta. Per questo abbiamo iniziato a lavorare su quello che si chiamamateriale personale, su qualcosa cioè che non è più esercizio ma è un materiale che posso elaborare per andare verso lo spettacolo. Il nostro metodo è stato quello di trattare il materiale personale come gli esercizi, guardando la cosa creata, un gesto, il testo, il costume, la voce stessa come se fosse un esercizio fisico. Questo trasforma il lavoro sul materiale personale in un allenamento mentale a trattare tutto quello che riguarda la mia persona, comprese le mie aspirazioni artistiche, in modo più concreto. Ecco allora che devo variare, sviluppare, come farei con un esercizio. E’ già un passaggio verso la creazione artistica; in più c’è da dire che trattando gli esercizi fisici come materiale personale, abbiamo ridotto il passaggio tra l’uno e l’altro cercando di avvicinarli il più possibile. Da questa impostazione è nato l’allenamento che chiamiamo ‘non codificato’ e cioè non racchiudibile in una forma.
Grotowski era solito ripetere che la sua ricerca era cominciata lì dove si era arrestata quella di Stanislavskij, in un territorio ristretto e sottile ma di grande profondità: la zona in cui dentro il corpo, l’azione fisica è preceduta dall’impulso. Lavorare in questa zona significa muoversi nell’interfaccia fra il cosiddetto “fisico” e il cosiddetto “spirituale”. Per far questo Grotowski concentrò la sua ricerca sull’impulso fisico-nervoso che precede l’azione. Gli studi di Ingemar si orientarono invece sull’aspetto mentale dell’azione, ponendo il focus della sua ricerca sull’impercettibile pausa che precede l’impulso fisico: in questo punto prese il via la ricerca sull’intenzione, uno dei principi base nel lavoro dell’attore, che diventerà l’impronta fondamentale della scuola dell’Institutet för Scenkonst. Come già abbiamo detto, a questo scopo Ingemar utilizzò l’enorme conoscenza tecnica del metodo di Decroux (di cui era stato in gioventù il maggior allievo) applicando all’azione in movimento gli esiti dello studio che il maestro francese aveva rivolto all’immobilità. Possiamo dire che il metodo elaborato da Ingemar sia in qualche modo una sintesi felice e innovativa tra gli esiti della ricerca di Grotowski da un lato e quella di Decroux dall’altro…
MAGDALENA PIETRUSKA Non si può parlare di sintesi però siccome Ingemar ha lavorato con Decroux ed ha conosciuto il lavoro di Grotowski lavorando come suo assistente è ovvio che tutto il lavoro sull’allenamento dell’attore è stato il punto di partenza di Ingemar. Poi ha sentito l’esigenza di continuare il suo lavoro con i suoi attori, l’Institutet è nato così, non si poteva ovviamente tornare indietro a quello che era già stato fatto. Come ti dicevo prima, la padronanza della fisicità, della precisione fisica era già stata raggiunta da Decroux e Ingemar ne aveva una conoscenza diretta acquisita nella pratica. La ricerca di Ingemar si è rivolta allora ad un attore improvvisatore, in un certo senso all’attore di cui parlava Stanislavskij negli ultimi scritti quando, giunto alla fine della sua vita, dice che sarebbe fantastico poter presentare agli attori un testo che nel giro di cinque minuti viene trasformato in spettacolo. E’ l’aspirazione a formare l’attore in modo che possa creare subito un risultato che vale. La ricerca della precisione corporea era mossa dal desiderio di poter agire organicamente, in modo naturale, sul palcoscenico come nella vita reale. Questo è il vero teatro d’attore: non fingere di fare ma fare una cosa adesso, essere qui. Per Ingemar era il passo più logico non tornare alla fisicità dell’attore, questo era già stato fatto e si poteva soltanto applicare. Ciò che lui ha cercato di raggiungere è quello che non era ancora stato fatto: lavorare direttamente sulla precisione mentale.
Arriviamo infine all’improvvisazione collettiva, vera punta di diamante dell’attività dell’Institutet för Scenkonst. La maggior parte dei gruppi che ha praticato questa tecnica l’ha interpretata come momento di massima libertà o di vago spontaneismo; ciò ha fatto sì che gli esperimenti non conducessero a risultati consistenti. Al contrario di quanto è avvenuto per il training o per il lavoro individuale in questo campo non si è mai giunti a codificare con rigore scientifico una metodologia di lavoro.
Scrive Magdalena: “…il lavoro del regista si concentra sull’accrescimento della capacità dell’attore di autogestirsi all’interno di una situazione sociale”. In che modo siete giunti servirvi della situazione sociale come materiale di lavoro? Che cosa significa esattamente?
MAGDALENA PIETRUSKA Anche questa è una conseguenza di quello che ho detto. Ingemar si è posto come obiettivo di scoprire in quale modo tutto il training precedentemente codificato fosse servito all’attore per aprirsi all’improvvisazione che non significa fare qualsiasi cosa liberamente. L’improvvisazione richiede una preparazione lunga e adeguata dell’attore; creare una cosa nuova e dirigerla, tramite le variazioni, verso una composizione di gruppo richiede un lavoro di drammaturgia dell’attore e questo per il lavoro di gruppo non è mai stato fatto. Noi abbiamo dedicato all’improvvisazione collettiva molto tempo per capire i meccanismi che la muovono: è lì che è stato sviluppato il principio dell’alternanza. Tutto il percorso fatto in questo campo ha significato un passo avanti verso il teatro d’attore e non verso il teatro di regia. Grotowski, nel periodo che faceva spettacoli, faceva sempre teatro di regia; lui era il regista, l’attore tramite l’improvvisazione produceva i materiali dello spettacolo e però era sempre il regista a fare il montaggio. Ciò significa che l’opera finita era quella del regista. Ingemar voleva invece arrivare ad un attore in grado di gestirsi da sé, di fare il suo spettacolo; ciò non avviene soltanto perché l’attore consegna i materiali trovati al regista che li monta in forma di spettacolo, ma perché l’attore può elaborare i suoi materiali, creare lo spettacolo e ricrearlo ogni volta che vuole come durante un’improvvisazione. In questo senso il ruolo del regista cambia di qualità, non è più lui l’autore dell’opera ma solo un co-autore insieme all’attore. Ingemar, scherzando, diceva di aver trovato finalmente un modo di prendersi le vacanze… Questo non vuol dire che il regista non serve più: il dialogo con il regista è essenziale per un attore ma noi preferiamo considerare il regista un osservatore che parla con l’attore sullo stesso livello. Ciò permette di concepire lo spettacolo come processo su due livelli: dapprima c’è il percorso dell’attore che inizia nel suo lavoro personale e continua nello spettacolo; poi c’è lo spettacolo che a sua volta è un processo continuo perché ci sono gli altri, c’è il gruppo con cui si collabora e lo spettacolo si deve ripetere anche se è improvvisato. Ingemar pensava che lo spettacolo come improvvisazione è una condizione, un principio di lavoro utile all’attore per riprodurre la vita. Così lo spettacolo si apre all’elemento sconosciuto, a quello che può accadere senza che sia previsto, cosa che è esclusa negli spettacoli di regia, fatti proprio per escludere gli imprevisti.
La situazione sociale di cui mi chiedevi è tutto quello che sta nello spazio di lavoro, sul palcoscenico. La situazione collettiva in cui l’attore si muove è sempre variabile, non è mai fissata, porta un elemento di cambiamento, di alternanza tra le scene. Se il contesto cambia in continuazione, mi alleno a non avere paura dell’imprevisto, ad accettare lo sconosciuto come elemento di vita. Si può dire che anche il lavoro di gruppo è un tipo di allenamento per addomesticare la mia paura dello sconosciuto, è questo l’elemento principale per l’attore. Quando richiedo indicazioni precise dal mio regista lo faccio per paura di trovarmi davanti all’imprevisto, se io invece mi alleno a gestire una situazione variabile imparo ad agire e a reagire come attore nel modo adeguato a quello che succede adesso e non in modo premeditato secondo la logica imposta dalla letteratura o da un percorso prefissato. Esercito una ‘spontaneità allenata’ il che mi permette di reagire a cosa realmente succede e non all’idea, all’interpretazione di ciò che succede.
ROGER ROLIN Possiamo aggiungere che uno dei pericoli più grandi dell’improvvisazione collettiva è quello di rimanere vittima del significato della situazione. La modalità di lavorare di cui parla Magdalena è la capacità di stare con il senso del proprio lavoro, ciò permette un’anacronìa tra azioni diverse che si svolgono contemporaneamente e che hanno direzioni diverse ma che devono mantenere questa diversità per creare quella situazione di gruppo. Se tutti si adattassero al significato della situazione sociale sparirebbe questa qualità di lavoro.
MAGDALENA PIETRUSKA Qui interviene quella distinzione tra senso e significatoindividuata da Ingemar, dove il senso dell’atto compiuto dall’attore è una logica immanente alla sua azione ed appartiene quindi al presente. Mentre il significato è definito dalla situazione sociale e cambia con il variare del contesto. Il significato non appartiene al presente ma ad una lettura successiva del contesto. Per questo è fondamentale che un attore lavori in ogni momento sul senso dei propri atti che non deve necessariamente corrispondere al significato della situazione. Un atto, un gesto hanno un senso di per sé, successivamente acquistano quello che in francese è la significazione e che in italiano è tradotto significato. In seguito con l’aiuto del regista posso scegliere quale significato utilizzare per lo spettacolo, ma è una scelta a posteriori. Nel teatro tradizionale si lavora soprattutto sul significato: l’attore deve riempire di senso una situazione che ha già un significato chiaro. Nel nostro lavoro si parte dalla parte oppostl’attore lavora sul senso della sua azione che può avere diversi significati e da questo lavoro sceglie quale tenere. E’ ancora una volta la scelta di Ingemar di ricercare i meccanismi della vita, di ritrovare la realtà nel teatro e non la finzione. Io non posso sapere a priori i significati della mia azione, devo prima di tutto agire partendo dal senso, dalla mia direzione mentale, dalla dinamica utilizzata, dalla direzione del mio progetto mentale che è anche il mio sentimento. Devo prima di tutto essere nel presente, nell’azione concreta, solo dopo posso leggerne i significati.
C’è una frase bellissima di Ingemar che dice: “Nonostante che uno faccia qualcosa di diverso dagli altri, egli partecipa fatalmente a ciò che gli accade intorno e ne diventa parte. Attraverso i suoi atti concreti l’individuo è costantemente in rapporto con la società. Nel momento in cui prova a partecipare in generale, viene escluso”. Nell’attenzione al particolare, all’atto concreto risiede il segreto dell’improvvisazione collettiva. Si tratta di un’apertura, di uno slargo percettivo dell’attore che è capace di ascolto verso ciò che lo circonda. Adesso egli è in grado di abbattere le barriere tra sé e gli altri, di trovare con loro un luogo di comunione reale.
Nel momento storico che stiamo attraversando in cui l’individuo è oppresso da modelli di individualismo sfrenato, da alienazione e incomunicabilità, nella violenza dei rapporti di forza sociali e nella sopraffazione globalizzata, qual è il potenziale sovversivo che scaturisce da un teatro che lavora sull’improvvisazione collettiva? quali i risvolti politici?
MAGDALENA PIETRUSKA C’è un meccanismo intellettuale per cui tentiamo di impadronirci del nostro futuro e così ne diventiamo prigionieri e restiamo paralizzati. Invece il futuro non appartiene a noi, il futuro lo creiamo adesso. Se invece stiamo con lo sguardo fisso sul nostro futuro facciamo degli errori fondamentali nell’oggi perché non diamo abbastanza peso ad essere ora, ad agire in modo adeguato adesso. Ciò produce un futuro che non è vivibile perché è un futuro pensato invece che essere libero da vivere quando diventerà il presente, libero di essere vissuto in ogni momento.
Il lavoro teatrale è un lavoro sul vivere insieme, è un lavoro estremamente pacifista, un lavoro sulla convivenza che è il contrario di quello che viviamo politicamente nella nostra società dove la convivenza è soltanto nominale ma non è reale. Appena succede qualcosa la interpretiamo come un pericolo al nostro territorio, alla nostra integrità e allora reagiamo con la manipolazione, con l’interpretazione che è sempre soggettiva e dettata da interessi miei poco chiari anche a noi stessi. Non voglio dire che si agisca in malafede ma c’è sempre un difendersi da qualche pericolo immaginario, questo provoca l’esclusione degli altri. Se invece riuscissimo a non interpretare ma a vedere cosa succede e agire adeguatamente si aprirebbe la possibilità di un futuro che si forma insieme agli altri, senza pregiudizi, nella tolleranza vera e non quella tolleranza perversa di cui parla Pasolini, quella che si concede a qualcuno reputato inferiore. La tolleranza è senza giudizio: non posso esercitarla in base al fatto che gli altri mi piacciano oppure no, se li amo oppure no, l’altro esiste e io non posso eliminare tutta l’umanità per la mia paura o per il mio interesse. Il punto è come convivere nel rispetto della diversità dell’altro; tutti noi siamo identità uniche e se cerchiamo di andare verso un futuro senza convivenza diventiamo la massa. Il nostro è un lavoro su cosa vuol dire convivere con gli altri, condividere la terra, siamo condannati a questo oppure dobbiamo fare delle stragi che eliminano tutti e non è una cosa pensabile anche se si fa nella società di oggi.
ROGER ROLIN Se uno desidera una società basata sul non antagonismo tra l’individuo e la collettività allora si può imparare molto dal nostro modo di lavorare. Se invece si desidera una società puramente individualista o puramente collettivista, che poi non può esistere perché sarebbe una società massificata, allora il nostro lavoro probabilmente dà soltanto l’angoscia.
3 aprile ore 21, Teatro Akropolis
La logica della passione – Opus Genova – Prima assoluta
Institutet för Scenkonst / X-Project (Svezia
4 aprile ore 18-22 / 5-6 aprile ore 14-20, Teatro Akropolis
ESSERE DEL FARE
Roger Rolin e Magdalena Pietruska, Institutet för Scenkonst
INSTITUTET FÖR SCENKONST L’Institutet för Scenkonst nasce a Storhögen (Svezia) nel 1971 ad opera del direttore artistico Ingemar Lindh (Göteborg 1945-Malta 1997). Formatosi alla Scuola Teatrale di Skara, Lindh aveva collaborato inizialmente con il Teatro Comunale di Stoccolma per proseguire poi gli studi alla Scuola Statale di Danza. Trasferitosi a Parigi, dopo due anni di studio presso L’Ecole de Mime di Etienne Decroux, diventa l’assistente del Maestro fondatore del Mimo Corporeo; assieme a tre allievi di Decroux (Yves Le Breton, Maria Lexa, Giselle Pelisson) fonda lo Studio II ospitato poi a Holstebro (DK). Tornato in Svezia lavora a Stoccolma come pedagogo ospite presso Teaterstudion e come docente in carica presso la Facoltà di Mimo alla Scuola Statale di Danza. Dopo aver fondato l’Institutet för Scenkonst con un gruppo di attori di diversa nazionalità, le ricerche di Lindh si concentrano sui principi dell’improvvisazione collettiva e sullo spettacolo inteso come processo in cui l’attore autonomo, in grado di autogestirsi è il maggiore responsabile dell’avvenimento teatrale. Per allenare il suo strumento, ovvero il corpo e la voce, l’attore dell’Institutet för Scenkonst si sottopone a un duro allenamento quotidiano suddiviso in due diverse tipologie di training: l’uno di tipo accademico, basato su tecniche codificate quale mimo, Kung-Fu, Tai-Chi, calligrafia, esercizi di educazione musicale; l’altro di tipo empirico che, partendo da esercizi fisici, acrobatici, plastici, biomeccanici lo conduce verso il lavoro personale secondo i principi individuati nella ricerca quali l’alternanza, l’isometria e l’intenzione. Nel 1976 l’Institutet för Scenkonst lascia la sede svedese e intraprende un periodo di vita nomade lavorando in tutta Europa. La vocazione internazionale e il multilinguismo rappresentano una dimensione costante del gruppo che si pone come luogo d’accoglienza, d’incontro, di scambio tra artisti, aprendosi a contesti multidisciplinari e ospitando diverse formazioni internazionali con cui avvia progetti pedagogici e coproduzioni artistiche. Basti per tutte ricordare la collaborazione di Ingemar Lindh con il Teatr Laboratorium di Jerzy Grotowski a Wroclaw e con l’Odin Teatret a Holstebro, la partecipazione a vari sessioni dell’ISTA, le conferenze e i seminari presso Teatri e Università straniere, gli studi con gli scienziati del Dipartimento di Neuroscienze dell’Università di Malta che nel 1995 lo portano ad assumere la direzione del programma di ricerca xHCA (questioning Human Creativity as Acting). Dal 1984 al 1997 l’Institutet för Scenkonst si stabilisce in Italia presso il Teatro della Rosa a Pontremoli (MS) dove nasce il Centro Internazionale per l’Autopedagogia e la Ricerca Teatrale. Nel corso dei tredici anni di permanenza italiana, centinaia di allievi, provenienti da vari paesi d’Europa e del mondo, partecipano a "L’Università del Teatro". Il progetto pedagogico, articolato in sessioni trimestrali, mette gli attori di fronte a un metodo unico nel suo genere, capace di farli accedere autonomamente al proprio percorso creativo e di confrontarsi con la dimensione di gruppo e con la convivenza tra diverse culture. Oggi l’Institutet för Scenkonst, diretto da Roger Rolin e Magdalena Pietruska, ha di nuovo sede in Svezia, a Nygard nei pressi di Göteborg, dove continua l’attività pedagogica e la produzione di spettacoli. Da gennaio Rolin e Pietruska sono in Italia in occasione di un progetto artistico a cura dei Teatri del Vento. Il progetto, dedicato all’opera di Pasolini, prevede la produzione di uno spettacolo con regia di Rolin-Pietruska dal titolo Tra verità, menzogna e desiderio che verrà presentato al termine di un percorso trimestrale con sei attori accomunati dalla precedente partecipazione a vari progetti pedagogici dell’Institutet för Scenkonst.