MILANO – Produzione del Teatro della Tosse di Genova in scena a Milano, al Teatro Menotti, dal 28 marzo al 2 aprile 2017, “Prometeoedio” è una riscrittura del “Prometeo incatenato” di Eschilo. A ridefinirne le trama, falsandola di poco (giusto nel finale, comunque riconducibile all’epilogo del “Prometeo Liberato”, sempre di Eschilo) è Emanuele Conte. Sua la firma anche come regista dello spettacolo e trasporre in modo esplicito, coerente e quasi pedagogico la sua idea di fondo. Chi è Prometeo? Il titano punito per aver rubato il fuoco agli dei e averlo donato ai mortali (episodio, pure questo, narrato nella trilogia di Eschilo). La teogonia classica racconta che Urano (il Cielo) e Gaia (la Terra), tratti direttamente dal Caos originario, a loro volta generarono, primi fra tutti, i titani.
Uno di loro, Crono (il Tempo), evirato il padre, ne assunse il potere, divorando, però, i figli via via nati dall’unione con la sorella Rea per non aver rivali. All’abominevole rituale dell’infantofagia scampò solo Zeus, che, costretto il padre a vomitare i figli inghiottiti, inaugurò il terribile decennio della Titanomachia, attraverso cui riuscì a dare una forma definita al suo regno. Questo il contesto in cui si svolge la vicenda di Prometo incatenato a una roccia ed osteso, a mo’ di punizione esemplare.
E’ così che lo troviamo, in scena, questo Prometeo: braccato da Bia (la Violenza) e punito, per ordine dello stesso Zeus, direttamente da Efesto (parte lesa dalla sottrazione del fuoco), che lo trascina fisicamente al suo supplizio. Eppure non c’è nulla dell’algida e luminosa compostezza greca, nell’allestimento di Emanuele Conte, che, sembra invece preferire, fin dalla scenografia, dalle musiche e dalla scelta cupa delle luci, la cifra della sconvolgente modernità di un testo scritto tremila anni or sono. L’alfa e l’omega – e quel cerchio, l’eterno ritorno, che sembra chiudersi di fronte a un prototipo di uomo, che, in corsi e ricorsi, torna a scoprirsi ora eroica misura di tutte le cose, ora fragile homunculus. È la pietas, nella lettura di Eschilo, e non la hubris, la cifra dell’eroe. A Cratòs (il Potere), che gli fa notare la vanità del suo gesto (sfidare il Signore degli dei a vantaggio di esseri mortali), Prometeo risponde con una pagina degna dell’umanista più fervente.
Alla miserrima condizione di questi esseri inermi, privi di unghie, zanne, corna, zoccoli e perfino pelliccia, individui non solo votati alla morte, ma gravati anche dal dolore, dalla malattia, dalla vecchiaia e, cosa ancor più atroce, dalla consapevolezza della loro ineluttabilità, il titano contrappone la scienza, la tecnica e le arti quali remedia che quest’esseri imbelli hanno saputo trarre dall’uso del dono rubato. Alla rabbiosa smania di supremazia e all’insaziabile furia intestina degli dei (padri, che divorano figli e figli a loro volta pronti a evirare i padri per sottrarre loro il dominio), ecco a far da contraltare una genia di “candidi”, quanto lo sarebbe stato quello di Voltair; tanto vulnerabili, quanto vivaci, curiosi e capaci di evolvere in modo virtuoso. E’ la speranza, condizione sconosciuta agli immortali, la moneta con cui gli uomini hanno saputo ripagare Prometeo. Ora lui per primo, come nello spontaneo travalicare del vaso giunto a misura, la riversa su Io, trasformata in giumenta da Zeus per sottrarla alla furibonda gelosia di Era. Non c’è misericordia, in questa genia d’immortali: e come la dea continua a perseguitare la giovane attraverso la vendetta del Tafano (la cui continua puntura la costringe a vagare per il mondo, rendendole la vita intollerabile), così incapace di pietà è non solo Zeus, ma anche Oceano ed Ermes, a differente titolo suoi emissari, venuti a implorare quell’atto di resa, che avrebbe potuto liberare Prometeo: ma Prometeo è il prototipo de l’homme revolté.
E cosa lo libererà, invece? La risposta ha molto a che fare con l’apparato scenografico, speculare alla chiave di lettura del regista. Un’impalcatura, in prossimità del proscenio, scandisce lo spazio in due: a fondo palco il mondo degli dei, dominato da quell’odio, violenza, tracotanza e sofferenza, che dovrebbero essere, invece, caratteristiche più tipicamente mortali; al di qua (dove, non a caso, è esposto Prometeo incatenato), la dimensione dell’umano, fatta dalla fragilità di un Efesto che, pur mentre riscuote quella che in effetti è la sua vendetta, non smette di lamentarsi della propria condizione di “mostro” e della bigotta pietà del Coro delle Oceanine rappresentate dal quasi grottesco sembiante di una beghina, tentennante fra fede e superstizione. Questa, l’idea registica calata in un simbolismo smaccatamente cristologico, ma che prevede un epilogo autodeterministico puramente laico. Ateo e autoinflitto come solo nella più orgogliosa tradizione umanista anche ante litteram, affonda le radici in Protagora e Gorgia, per arrivare ai più contemporanei esponenti dell’individualismo, del solipsismo e, estremizzando, del nichilismo. Ma qui siamo ancora nell’idea classico dell‘homo mensura, dell’eroe bastante a se stesso. Non c’è conflitto se non nella dialettica che oppone l’eroe all’antagonista. Ecco, forse, in che senso resta classica, questa pur contemporanea messa in scena del mito. Così come classico resta il modo quasi declamatorio e impostato degli attori e i costumi (pur nella felice intuizione, come si diceva, del Coro).
Certo rimarchevoli sono la perfomatività quasi eroica di Prometeo/Gianmaria Martini, per quasi tutto il tempo costretto in una posizione sospesa, così come l’esplosività di Alessia Pellegrino/Io, l’intensità di Enrico Campanati/Ermes e la duttilità di Roberto Serpi/Efesto e Coro e di Pietro Fabbri/Oceano e Cratòs. Di sicuro una buona prova d’attori professionisti, fedeli esecutori di un teatro, ma il merito maggiore resta nella potenza del testo greco e nella capacità di averne individuato le contiguità con le criticità del contemporaneo.
Visto al Teatro Ciro Menotti il 28 marzo 2017