Contributi critici, Pensieri critici, Teatro — 30/05/2016 at 20:09

Le tante “anime” di Giorgio Albertazzi

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Della morte non ha mai avuto paura di parlare, Giorgio Albertazzi: «Sono curioso, è un mutamento. Come la vecchiaia, l’adolescenza, nell’uno e nell’altro caso avverti la metamorfosi del corpo, anzi la subisci, ma è divertente». Non si sarebbe mai fermato e come il suo imperatore Adriano è riuscito a «guardarla con gli occhi aperti». Nei lunghi dialoghi fatti con lui in questi ultimi anni, ricchissimi, ricorreva la parola metamorfosi. Anzi, l’affascinante ultranovantenne – avrebbe compiuto 93 anni il 20 agosto – preferiva definirla «polimorfosi», qualcosa che avviene in contemporanea, non nel volgere del tempo: «Sono stato più volte più forme, più “anime” nello stesso momento», diceva. E questo portava in teatro, dove ogni personaggio – dai pirandelliani Mattia Pascal e Enrico IV agli scespiriani Amleto o Puck, al prezioso Edipo a Colono di Sofocle – era lasciato libero di toccare i registri più vari, su quello strumento docile che è l’attore quando è tale. Come lo era lui.

IMG_8816Nella vita, forse, docile non era. Arrendevole sì, con tutte le signore e signorine al suo fianco sulla scena e nel privato – da Bianca Toccafondi a Anna Proclemer a Mariangela D’Abbraccio — al punto da lasciare crescere in loro un senso di possesso… mai appagato. L’affermazione della sua libertà di uomo, che lo portò a unirsi in matrimonio solo nel 2007 con la nobildonna Pia Tolomei di Lippa (cui telefonava sempre a fine spettacolo), non era una fuga dal femminino, anzi «tante cose delle donne, soprattutto le gambe, sono prova dell’esistenza di Dio», proclamava. Era semmai generosità nei confronti del loro universo, attraverso un dono continuo di intelligenza, fantasia, ironia, conoscenza che doveva essere alimentato, sempre, nuovamente e liberamente.
La cultura, vasta, assorbita nel profondo, come quell’imperatore Adriano di Marguerita Yourcenar che gli fece fare il giro del mondo sul carro trionfale del teatro, veniva dall’infanzia, dalla famiglia, dalla bellezza dei colli di Fiesole, dai classici, soprattutto latini studiati a scuola e rappresentati tante volte nella lunga carriera cominciata con De Musset e Ford ma già nel 1949 affidata a Shakespeare del ‘Troilo e Cressida’ e alla regia di Luchino Visconti. Attore rigoroso in gioventù in ditte prestigiose con De Lullo, Ricci, Stoppa, Buazzelli… poi sempre più ispirato da una sorta di dèmone dell’interpretazione, il ‘duende’, che lo portava a dominare la scena come un animale da ammansire, a inventare situazioni al limite dell’improvvisazione, a cercare una comunione «erotica» attraverso le parole, perché, diceva, «bisogna fare l’amore con il pubblico» e ne diede prova anche in una delle sue regie liriche, la ‘Salome’ di Strauss, o mostrandosi nudo sfidando Picasso.

Albertazzi-memorie di adriano 3Un uomo bello è stato fino alla fine, ma a giudicare dalle fotografie il suo Amleto era una sfida a Olivier nella finezza dei tratti; il suo principe Myskin, l’Idiota di Dostoevskij, un simbolo di purezza da far vacillare la corruzione. Da ultimo, con l’eleganza dei modi e quel lieve claudicare, era fascino puro, un enigmatico capitano Achab, come nel lavoro diretto da Antonio Latella. «Ho un rapporto difficile col mare — spiegava — e poi non ci sono donne nello spettacolo, eccetto la balena bianca irraggiungibile. Moby Dick è l’incontro con un uomo dai capelli bianchi, che sarei io, è il teatro che deve ancora venire».
Sul suo passato fascista per cui, scampata la fucilazione, fu processato, di tanto in tanto i giornali sono tornati con lettere e verbali.

Lui nell’autobiografia ‘Un perdente di successo’ (Rizzoli, 1988) scrisse: «Scelsi non coloro che si erano già arresi, e che disprezzavo, bensì la causa perduta contro il conformismo piccolo borghese che già si preparava ad acquattarsi nelle pieghe della Resistenza». Dopo aver ammesso la sua scelta «dettata dalla mia natura anarchica», dopo aver detto di aver amato la guerra, come Marinetti, ma di pensare oggi «che sia una cosa terribile, da cui dobbiamo liberarci, così come dalla burocrazia, dall’autorità ottusa», Albertazzi si era liberato anche dei rimorsi, un peso non più da portare e su cui fare silenzio.

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