RUMOR(S)CENA – L’HOTEL DEGLI AMORI SMARRITI – Christophe Honoré: uno spirito raro. Regista, critico, scrittore per la gioventù. Passa da un’opera ostica come Ma mère (2004), dal romanzo postumo di Georges Bataille, a un classico come le Metamorfosi di Ovidio, riletto, appunto, nell’inedito Métamorphoses (2014). L’hotel degli amori smarriti (Chambre 212, in originale), commedia duttile e amarognola, è l’ultima sua fatica uscita in sala.
Un matrimonio come tanti, troppi: Maria (Chiara Mastroianni) insegna Diritto privato comparato all’Università; Richard (Benjamin Biolay) è un pianista mancato; lei – femminista in ciò che le fa comodo – si è lasciata dietro parecchi letti sfatti e, serenamente, ne ha lasciati altrettanti pure da sposata; lui è un bamboccio, inetto perfino nelle scappatelle. Basta un giorno e tutto cambia. Dopo l’ennesimo litigio, i due pernottano fuori casa, ignari del fatto che i rispettivi alberghi siano l’uno prospiciente all’altro. Una sorpresa attende Maria in camera da letto: Richard. Non quello odierno bensì il Richard di vent’anni fa (Vincent Lacoste), virile e un po’ folle. Nella sua stanza, l’uomo riceverà una visita non meno singolare: Irène (Camille Cottin), la maestra di piano che lo sedusse da ragazzo, irrealmente giovane e bella come allora, a malincuore respinta per Maria. Incubo o scherzo del Tempo? Non è dato saperlo. Sarà, comunque, una notte insonne…
Chambre 212 ha nelle suddette penne, Ovidio e Bataille, i suoi numi tutelari. Specie il primo, con il suo “senso della provvisorietà, della mutevolezza di ciò che appare ai sensi e che a un tratto si scompone per diventare altro da sé” (Panzuto, 2010). Incitati dal poeta latino, i quesiti-chiave del copione, ancorché lisi, giungono intatti nella loro verità. Cos’è l’identità? Perché certi amori si sfibrano prima di altri? Ambedue le risposte si sovrappongono, suonando meno facili e più sottili della media. Nessuno è una persona unica, in tutti si agita una “folla”: la persona che siamo stati e mai più saremo; la persona futura che, al momento, non possiamo figurarci; la persona che avremmo dovuto essere ma che, per crudele vincolo o scelta errata, non siamo divenuti. Quest’ultima è la più avida, quasi sorniona: quando marcia, l’affiancano, puntuali, voci e volti a noi odiosi, che credevamo lontani.
Oggi più che mai, intessere legami dovrebbe significare proprio questo: convivere con la nostra invisibile, smaniosa “folla”, tenendola dolcemente a bada, e ugualmente ascoltare la “folla” dell’altro, aiutandolo – entro certi limiti, s’intende – a domarla nelle ore più buie. Perciò taluni rapporti finiscono: ci si limita a ciò che l’amato “è” nell’attimo presente e neppure a ciò che è “di fatto” ma all’immagine di cui l’ammantiamo, illusi che tale resterà nel tempo, in un’inscalfibile identità di anima e corpo. Ma, parafrasando Richard, se l’usura del corpo è più facile da vedere (e accettare), quella dell’anima è più subdola e coglie sempre egoisticamente impreparati. Questa è la moderna fiaba di due naufraghi, del battibecco fra le loro “folle invisibili” e di camere, un poco sinistre, che fungono da “scandaglio”.
La pellicola di Honoréè, infine, un astuto inchino alla Decima Musa e al suo potere mistificante. Abbondano le citazioni: si va dagli ovvi Citizen Kane (uno degli alberghi si chiama “Rosebud”), Le mépris (il maturo, sbarazzino nudo di Maria, in posa come la Bardot), ai più velati Population zéro di Campus (il mostruoso pupazzo che Irène coccola al posto del figlio mai avuto) e Le locataire di Polański (la facciata dell’hotel colta come un mosaico di schermi filmici e al contempo specchio anamorfico degli inquilini dell’edificio di fronte); ma l’omaggio più bello resta quello rivolto a WarGames di John Badham, il cui manifesto “splende” nella bacheca del multisala sotto l’hotel di Maria. La sua presenza non è casuale né il richiamo al noto dialogo sul ‘tris’. Crescendo, nessuno ci gioca più. Perché? Non si può vincere, è inutile! Nella vita, in amore come in guerra, illudiamo poco a poco noi stessi che si debba non solo vincere ad ogni costo ma che si possano subire delle perdite senza che queste lascino cicatrici evidenti e profonde. Accettare la proroga pressoché infinta del ‘tris’ significa, invece, accettare genuinamente la natura in sé, “divinamente” inutile, del gioco e, per riflesso, dell’afflato amoroso medesimo.
Chiara Mastroianni. Crediti foto: Strand Releasing, distributrice USA (titolo On a magical night)