Daria Deflorian mette in scena il romanzo della scrittrice sudcoreana Han Kang. Un affresco insinuante e sottile che indaga sulla decisione di una donna di smettere di mangiare la carne. Lo spettacolo ha debuttato il 27 ottobre scorso nell’ambito di Opening-showcase Italia di Ert a Bologna ed è in arrivo al Romaeuropafestival dal 29 ottobre al 3 novembre al teatro Vascello
RUMOR(S)CENA – BOLOGNA – Cosa succede quando all’improvviso si diventa consapevoli che la bistecca nel piatto non è un pezzo di carne inerte ma proviene da una creatura che era viva? Una creatura che aveva un cuore, sangue che scorreva nelle vene, respirava e aveva occhi per guardare il mondo? E’ un’agnizione dolorosa che Yeong-hye, la protagonista de La vegetariana, ha attraverso un sogno. Il romanzo di Han Kang, scrittrice sudcoreana , risale al 2007, pubblicato in Italia solo nel 2016 e portato ora sulle scene da Daria Deflorian, in collaborazione con Francesca Marciano e con gli attori della compagnia, proprio quando alla scrittrice sudcoreana è stato assegnato il Nobel della Letteratura.
Ma non è una conseguenza della notorietà improvvisa di Han Kang e nemmeno una fortunata coincidenza, piuttosto è un’affinità elettiva che Deflorian ha avvertito per questo testo e che ha già dimostrato nel tempo perlustrando paesaggi desolati dell’anima, gli angoli del cuore, i taccuini segreti dove annotare le piccole cose di nessun conto che costellano vite solitarie. Basta dare uno sguardo al suo percorso d’attrice per ritrovare i segni di questa sensibilità, da L’origine del mondo di Lucia Calamaro – esplorazione pungente sul sentimento del dolore – a Rzecky/Cose – ispirato al diario minimo di una casalinga polacca -, tanto per citare un paio di spettacoli in linea con questo di oggi.
Ne La vegetariana Daria Deflorian trova il suo habitat ideale, giostrando con dimestichezza fra regia e recitazione, con mezzi toni e sottotraccia com’è nella sua cifra stilistica. Il grande fondale grigio acquatico ideato da Daniele Spanò, con squarci che rivelano di tanto in tanto altri interni, accompagna il racconto intorno a Yeong-hye (una sublime Monica Piseddu). Sono prospettive esterne a una donna definita di ordinaria medietà dal marito (Gabriele Portoghese). Grigia come il fondale, così da garantire quell’omogenea nullitudine che garantisca l’imperturbabilità del vivere. Ma ci sono i sogni di Yeong-hye che irrompono nel tran tran dei coniugi. E sono sogni che grondano sangue, che squassano, che sovvertono per sempre l’ordine delle cose. Da figura di contorno, la donna si trova sbalzata al centro delle attenzioni e delle preoccupazioni dei suoi familiari, sconcertati dalla sua scelta di non mangiare più carne.
È una ribellione passiva, gandhianamente non violenta, eppure scatena le ire del padre che a un pranzo di famiglia la vuole costringere con la forza a ingoiare un pezzo di maiale arrostito. Sputando il boccone, la figlia vomita anche l’origine lontana del suo tormento interiore, un raccapricciante episodio nell’infanzia, che molto dice senza spiegare sulla violenza, sul peso di una cultura patriarcale, le superstizioni, le arretratezze di un popolo, la crudeltà degli umani. È l’unico monologo affidato alla protagonista, il fulcro di tutta l’azione, così scabro e implacabile. Per il resto, Yeong-hye/Monica Piseddu è un corpo eccentrico su cui si appuntano gli sguardi e le reazioni: sorpresa e rifiuto del marito, la rabbia del padre, il malinconico spaesamento della sorella (Daria Deflorian) che forse rivede in lei le stesse sue inquietudini non riconosciute. E soprattutto la crescente infatuazione del cognato pittore (Paolo Musio, abbacinato dall’insolita musa che Yeong-hye viene a rappresentare).
Nel corso dei tre tempi dello spettacolo, l’acquario-fondale fiorisce con le mutazioni di Yeong-hye, si accende di colori (quando il cognato si appresta a dipingere fiori sul suo corpo nudo, una delle scene più suggestive) fino alla trascendenza finale, quando la fisicità si fa eterica, come il desiderio nell’eletta vegetariana di trasformarsi in pianta. Chiusura in levare, in punta di piedi, con gli ultimi dubbi ansiosi della sorella dissolti da un sospiro. In sintonia col personaggio lieve che Monica Piseddu incarna o meglio invegeta. Ma forse un grande bagliore di luce e colore ci sarebbe stato bene per questa mistica metamorfosi che sfiora la santità.
Visto al Teatro Arena del Sole di Bologna il 27 ottobre 2024