RUMOR(S)CENA – MODENA – È peccato mortale scuotere la quiete dei semplici. La verità che spezza i cieli e rompe la raffigurazione del mondo, che per secoli ha rincuorato gli uomini, non si deve dire. Per questo Galileo si inginocchia ai padri della Chiesa e abiura. Eppure è sua la verità: la Terra gira attorno al Sole e la luce di una stella arriva, ma la stella è morta. Dunque il cielo adesso è smisurato, ma rispetto a cosa? E gli umani come possono restare in equilibrio se una palla si muove sotto i loro piedi?
Un’ora e mezzo di spettacolo ci investe letteralmente e riesce a mettere in scena con parole antiche il cuore moderno di tutte le questioni: dove sta andando l’umanità? Processo Galileo, liberamente ispirato alla vita e alle opere di Galileo Galilei nasce dalla collaborazione dei registi Carmelo Rifici e Andrea De Rosa, scritto a quattro mani da Angela Demattè e Fabrizio Sinisi, è una produzione ERT Emilia Romagna Teatro assieme a LAC Lugano Arte e Cultura e TPE Teatro Piemonte Europa.
Tutto era cominciato nel secolo della peste e delle guerre (non sarà un caso che l’arte del teatro lo riporti a noi, adesso). L’imprevista cosapevolezza di non essere noi al centro del mondo. Come un rovesciamento all’indietro degli occhi per tornare a vedere diverso. E se Dio fosse Donna? E se nell’Universo non fossimo soli? E se l’amore non fosse nel cuore ma nei numeri? Le vecchie parole non servono più, hanno perso significato, bisogna inventarne altre, renderle meno certe, relative. Cosa significa grande, cosa significa piccolo? Dove finisce l’infinito e dove l’infinitesimale?
In scena Angela (siamo nel presente) lavora alla sua ricerca sul processo a Galileo Galilei (1633) attraverso lettere, carteggi, atti processuali. Evoca voci e figure del passato: la giovanissima figlia di Galileo, suor Virginia (meravigliosa, è riuscita a commuoverci), il suo giovane discepolo Benedetto Castelli. A dimostrazione che la scienza poggia anche sulle generazioni (e sulla trasmissione dei saperi) e fortunatamente non può fare a meno di esse, in scena anche la madre di Angela o il suo fantasma, che ci riporta a terra: Che bisogno c’è di guardare i cieli. Se non tenessimo gli occhi bassi chi lo curerebbe questo orto? Concreta come una donna padana la madre (anche lei sempre in scena) ama i suoi fagiolini e conosce i lombrichi. E lì, per guardare la terra, non hai bisogno di un cannocchiale. Sono piccoli i lombrichi, ma piccoli rispetto a cosa? L’orto lo vedi e lo senti. Ecco, soprattutto lo senti, nel naso e nelle mani. Ogni tanto ti serve quel cielo, certo. Sai che la luna piena alza le maree e aiuta i fagiolini a crescere più svelti, e aiuta le partorienti.
I figli nascono attraverso dolori che sembrano di morte eppure sono di vita e poi arriva il latte senza fare niente. Arriva e basta. Ma lo scienziato insiste, il numero è sovrano, non esiste una verità assoluta, il cannocchiale è il nostro bisogno di una conoscenza senza limiti. Fattene una ragione dice a noi umani ovvero abbi coscienza, che altro non è se non la consapevolezza di abitare un piccolo pianeta che orbita intorno al sole in un universo sterminato. Se non hai coscienza non hai nemmeno la responsabilità dei tuoi gesti, né dei tuoi limiti. E guai se mani sbagliate si allungano ad arraffare le verità che verranno. E si capisce bene che cosa intende il maestro. È la Civitas a porre i limiti, questo almeno è il suo compito.
Tutto questo ci dice Galileo su questa scena orizzontale di visioni verticali, dove si alternano sguardi alti a altissimi e poi bassi. Un pianoforte al centro della scena ci lascia sperare in una mediazione tra emozione e perfezione matematica, tra bellezza e meccanica. Di questo abbiamo coscienza. La coscienza si può moltiplicare?
Poi via via, nella scena come nella vita, come nella Storia, la scienza che ancora avrebbe potuto esserci amica, che ancora avrebbe avuto una parola per il lutto di Angela (la madre muore, e non resta che polvere) diventa tecnica, strumento, dispositivo, macchina. Come in un disperato tentativo di aggrapparsi a un nuovo dio una giovane donna prova a battezzare le stelle una ad una, cercando di salvarle in un impossibile catalogo. E un giovane studente grida una straziante delusione per la fede tradita in un mondo razionale che prometteva la fine dell’oscurantismo, della violenza e della guerra.
E se sarà la tecnica a sovrastarci non ci chiederemo cosa possiamo fare noi con la tecnica ma cosa la tecnica farà di noi, e sarà come essere costretti all’abiura della nostra stessa storia, della cultura, della morale, della democrazia, come impreca il più giovane di tutti, nostro figlio e nipote. Anche lo spazio scenico apparentemente stabile, geometrico, suggerisce nel corso dello spettacolo una trasformazione verso un’ instablità controllata, la terra è un vassoio di foglie che si può rovesciare in un momento, l’elemento organico scompare, i suoni si fanno amplificati e distorti e infine una luce riflessa su superfici metalliche e dorate ci acceca perchè “Non c’è orrore più grande della luce piena”. L’occhio umano non può sopportare, così (grazie al cielo) ritorna il buio, e in quel buio c’è il riposo o magari la nostra stessa notte.
Straordinaria l’interpretazione, densa e senza enfasi dei protagonisti: Luca Lazzareschi, Milvia Marigliano affiancati da Catherine Bertoni de Laet, Giovanni Drago, Roberta Ricciardi, Isacco Venturini.
Visto al Teatro Storchi di Modena il 25 novembre 2022