Quando la battaglia fu conclusa, Hastinapura era una città in lacrime: tutte le donne e i bambini piangevano e lamentavano la perdita dei loro cari uccisi. Dhritarashtra si recò sul campo di battaglia, seguito da parecchie migliaia di vedove. A Kurukshetra, di fronte alla scena della teribile carneficina, il re cieco, al pensiero di quanto vi era accaduto, scoppiò in un pianto dirotto. Ma, a cosa poteva servire piangere? (Mahābhārata, capitolo 96)
FIRENZE – Dolore e desolazione di chi contempla le perdite dei vinti e dei vincitori, il campo di battaglia, terra rossa intrisa di sangue, è testimone silenzioso e la cornice di quello spazio oramai vuoto. Battlefield è la raffigurazione di quella rovina, il nodo della narrazione contenua nel Mahābhārata e luogo di ispirazione per l’ultima produzione dell’inglese Peter Brook con la collaborazione di Marie-Hélène Estienne. Già più di trent’anni fa, nel 1985, l’ epopea fu messa in scena dal maestro con l’adattamento del testo di Jean-Claude Carrière, segnando un momento indimenticabile nella storia del teatro occidentale.
La particolare poetica di Peter Brook si allontana dalle forme segnate dalla tradizione, spogliando la scena e restituendogli la forza primordiale de Lo spazio vuoto -titolo del suo primo libro. Uno spazio, un attore e uno spettatore: il suo teatro affonda le radici nelle manifestazioni dei primi del novecento -in cui maestri come Stanislavskij, Artaud e Copeau – rinnovano il teatro a partire dalla valorizzazione dell’attore, privilegiando il lavoro emotivo e corporale di sé stesso al servizio dell’azione. Una scena di rigore e limpidezza, intima, discreta e sintetica che rimanda ai principi grotowskiani per un teatro povero. L’educazione dell’attore è spinta verso l’arte della narrazione, alla scoperta delle molteplici voci e prospettive che nasconde; l’artista-narratore diventa strumento di essa. Difatti, Battlefield ricompone la tradizione poetica di Brook e del Mahābhārata, attraverso la narrazione concisa e sintetica dell’attore-trasmetittore. Il nodo centrale della storia s’intreccia ad altre narrazioni, rimandi al passato e di visioni del futuro incentrati non solo nei conflitti della guerra ma soprattutto negli aspetti religiosi, filosofici e morali trasmessi nel testo mitologico indiano.
Questa narrazione epica tramandata dalla tradizione orale è diventata parte dell’archivio classico della letteratura mondiale. Le sue storie mitiche funzionano come un antecedente e come esempio di azioni compiute dall’uomo e dalle divinità che riferiscono alla condizione duale, sacra e profana, della realtà. Cosi il mito si presta ad un avvicinamento simbolico alla dimensione religiosa e sacra del quotidiano. In questo testo, mito e narrazione – e quindi letteratura- sono intimamente connessi, la forma narrativa acquisita dal mito permette di dare un senso simbolico alla realtà e quindi più diretto alla comunità. Battlefield rispetta questa logica in quanto non ci sono spazi per gli psicologismi; le storie riferite, tanto crudeli come reali, abitano la scena assieme alla forte presenza fisica degli attori. I movimenti discreti e contenuti di Carole Karemera, Jared McNeill, Ery Nzaramba e Sean O’Callaghan non cercano di raggiungere alcuna carica psicologica o sentimentale nella loro recita; e nemmeno un personaggio preciso, bensì rincorrono con forza una narrazione molto frontale, allo spettatore che sembra essere sempre sospesa e inconclusa. La musica rituale del tamburo di Toshi Tsuchitori, pari ad un’altra voce, accompagna i momenti di tensione e l’intimità della scena totale.
La storia mitologica, anche se distante geograficamente, si svela in tutta la sua contemporaneità; lo stesso maestro ha segnalato nelle sue note di regia che più che la storia, molti degli aspetti di fondo trattati in essa –morte, pentimento, memoria, invidia, lealtà, perdono, ecc- hanno evidente risonanza nella nostra epoca. La sopravvivenza della narrazione mitica nel teatro antimetico e simbolico di Brook scava nelle radici dell’indicibile della storia e di un arte che lotta per riscoprire continuamente e rimanere nella sostanza di se stesso.
Visto al Teatro della Pergola di Firenze il 24 maggio 2016
In tourneé
Tratto dal Mahābhārata e dall’ adattamento di Jean-Claude Carrière
Adattamento e regia Peter Brook e Marie-Hélène Estienne
Con Carole Karemera, Jared McNeill, Ery Nzaramba e Sean O’Callaghan
Musiche Toshi Tsuchitori
Traduzione in italiano di Luca Delgado