Recensioni — 31/12/2021 at 18:22

Odissea. Storia di un ritorno: progetto teatrale modello di politica culturale e sociale

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RUMOR(S)CENA- MILANO – Negli ultimi anni è andata via via affermandosi l’identità e la fisonomia del teatro del sociale. Con tale espressione si suole indicare un teatro che coinvolga attori non professionisti: comuni cittadini, anziani, studenti, disabili, carcerati; un’attività, quindi, che accanto agli scopi artistici si pone obiettivi di socializzazione, di integrazione, di costruzione di una rete di comunità. Di regola, dietro quelle iniziative c’è una presenza professionale che progetta e coordina la produzione, che non solo vorrebbe sortire un esito spettacolare, ma anche e specialmente realizzare un percorso umanamente e socialmente utile per tutti coloro che vi sono coinvolti. Ho buoni motivi per ritenere che ambedue gli obiettivi siano stati raggiunti nel caso di Odissea – storia di un ritorno, uno spettacolo ideato e diretto da Serena Sinigaglia e prodotto dall’ATIR, la compagnia che, non disponendo più dello spazio del Teatro Ringhiera, gode ormai da quattro anni della generosa ospitalità dei più importanti teatri milanesi, e che nel caso presente ha lavorato in collaborazione col Teatro Carcano.

Mattia Fabbris foto di Serena Serrani

La presenza di una nutrita squadra di artisti, dotata di talento e professionalità che ha operato a monte e dietro le spalle dei quasi novanta personaggi che si alternano sulla scena, si evince fin dall’inizio per l’affascinante architettura delle luci di Alessandro Verazzi, ora esplicativa, ora suggestiva, e da una serie di felici idee drammaturgiche, registiche e scenografiche che costellano le quasi due ore dello spettacolo.

Unico professionista in scena è Mattia Fabris, uno degli attori storici dell’ATIR, qui nelle vesti di un anziano Ulisse, seduto in disparte all’estremità della scena, che anticipa, racconta, commenta gli episodi dell’Odissea che ci vengono proposti e, infine, ci annuncerà la partenza per il suo ultimo viaggio, secondo la versione che ne offre Dante nel XXVI canto dell’Inferno. Nell’incontro con i Ciclopi, che prelude all’avventura con Polifemo, questi entrano in scena tenendo fra le mani strani oggetti biancastri arcuati, di diverse dimensioni, e li posano sul palcoscenico in una disposizione prospetticamente suggestiva: elementi scenografici che solo alla fine dello spettacolo troveranno una chiara ragion d’essere, suggerendo il fasciame di una nave, la cui immagine, secondo l’iconografia della pittura vascolare greca, andrà lentamente definendosi.

foto di Serena Serrani

Oltre che in questa felice creazione, la fantasia sottesa al progetto si manifesta in altre originali invenzioni, ad esempio nell’utilizzo, per molti costumi dei personaggi e per la vela rettangolare della nave, di un tessuto luccicante, nel quale riconosciamo la coperta isotermica, dorata su una faccia, argentea sull’altra, che in tante immagini abbiamo visto avvolgere e proteggere i corpi assiderati di persone salvate dal naufragio. Ma l’allusione al dramma degli immigrati non è l’unico riferimento alla cronaca – e alla cultura – contemporanea. Quando l’Odissea si leggeva in terza media, non mi sembra che, parlando dei mangiatori di loto, gli inseganti si dilungassero sulla natura di quel misterioso frutto, né sui suoi effetti narcotici e allucinogeni (cui anche il poeta inglese Alfred Tennyson, affascinato del mito di Ulisse aveva dedicato una poesia: The Lotos Eaters). Nello spettacolo, il riferimento alla droga è abbastanza esplicito, evidenziato dalla felice soluzione drammaturgica e registica di far svolgere tutta la scena in un linguaggio materiato di mimica e di parole difficilmente interpretabili, che sottolinea il distacco dalla realtà, proprio dei lotofagi.

foto di Serena Serrani

Anche per l’episodio delle Sirene, la regia trova un’interpretazione originale e ardita: non donne affascinanti e sensuali, ma bambini, le cui voci possono risuonare incantevoli e attrattive, dolcissimi e terribili, perché contengono gli echi di un mondo misterioso, che di solito gli adulti hanno dimenticato (come ci dice Antoine de Saint-Exupery). Il felice esito spettacolare del progetto conclude e suggella un percorso di grande impegno e di notevole spessore pedagogico e sociale, iniziato oltre due anni prima. Si comincia, nel gennaio del 2019, con una nuova traduzione degli episodi che si è deciso di mettere in scena, affidata alla grecista (contigua al mondo del teatro) Maddalena Giovannelli, con Alice Patrioli e Nicola Fogazzi. Il linguaggio dovrà rendere la parola omerica adatta alla restituzione drammaturgica di interpreti provenienti dalle più disparate fasce culturali e sociali; dovrà essere comprensibile agli anziani e ai giovanissimi: a chi ha letto l’Odissea e a chi appena l’ha sentita nominare. Come spiega Nadia Fulco, attrice che ha fatto propria una vocazione pedagogica, responsabile dei progetti sociali dell’ATIR, fra gli obiettivi principali dell’associazione c’è da sempre il mettere insieme persone di diversa provenienza, il creare una rete che colleghi e integri le specificità e le diversità presenti nel territorio. A tale scopo, mentre ancora prosegue il lavoro di traduzione, si organizzano una serie di incontri ed eventi culturali, volti a familiarizzare il composito gruppo degli interpreti con il poema omerico.

foto di Serena Serrani

I temi vanno dalla questione omerica ai problemi della traduzione, alla drammaturgia, alla regia. La sede è l’Accademia di Belle Arti di Brera, i cui studenti, sotto la guida di Maria Spazzi (da tempo scenografa principale dell’ATIR) e della costumista Claudia Botta, verranno incaricati di progettare e realizzare le scene e i costumi per i saggi intermedi e per l’evento finale. Intanto iniziano i laboratori – nove – ognuno mirato su uno o due episodi del poema. Da marzo a settembre del 2020 la pandemia impone una sospensione delle attività, ma nell’estate del 2021 vanno finalmente in scena gli esiti dei laboratori. Lavorando su questi materiali Letizia Russo e Serena Sinigaglia cuciranno una drammaturgia dello spettacolo, che vedrà finalmente la luce alla fine dell’autunno, al teatro Carcano, in tre giorni consecutivi. Più che da questa molto sommaria ricognizione delle tappe del progetto, è scorrendo l’elenco delle persone e le istituzioni che vi hanno preso parte (che riempie più pagine del programma di sala) che se ne desume l’incredibile ampiezza e complessità, che coinvolge teatranti, insegnanti, educatori, semplici cittadini, sarte e sarti volontari; e poi i vari partner: un elenco ove figura l’Otto per mille della Chiesa Valdese, la Cariplo, l’associazione Amici di Edoardo, il Municipio 5, l’Accademia di Brera, alla Cooperativa Sociale Comunità Progetto, e molti altri. Mi auguro che lo spettacolo, dopo le repliche al Carcano, trovi altri momenti di visibilità.

foto di Serena Serrani

Ma è specialmente il progetto nel suo insieme che merita diffusione: non solo per la qualità artistica e spettacolare del suo esito, né per il coraggio, o per l’ostinata determinazione a porlo a termine, nonostante le condizioni avverse; ma perché costituisce un esempio da manuale di quelle che oggi si amano definire buone pratiche. Di più: è un modulo operativo che le istituzioni, pubbliche e private, non solo dovrebbero incoraggiare e sostenere, ma adottare come modello per una illuminata politica culturale.

Visto al teatro Carcano di Milano il 28 novembre 2021.

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