In definitiva Riccardo Goretti ha sempre parlato di biografia. Il suo è soltanto uno scarto, un passaggio, un’evoluzione sul tema, una variazione sull’argomento che lo affascina: il contrasto tra la verità della vita e la verità (quindi di finzione) del teatro. C’è una realtà vissuta e quella raccontata ed anche nel caso limite della riproposizione della stessa in fase scenica, quella sentita e vista in forma di prodotto drammaturgico non può in alcun modo avvicinarsi neanche lontanamente al trascorso sulla pelle degli uomini. Da una parte la carne ed il sangue, dall’altra le parole. Da una parte il dolore e la gioia, dall’altra il racconto delle stesse sensazioni.
Se con il suo lavoro con Gli Omini, la sua era una ricerca nell’andare a scovare le biografie di cittadini ed abitanti di un territorio per collegarle al tempo presente, se con il solo “Annunziata detta Nancy” si affaccia dal suo piccolo oblò per scrutare e sbirciare dentro il proprio albero genealogico, stavolta con “Essere Emanuele Miriati” il salto è triplo: c’è una biografia che diventa autobiografia, si racconta di un personaggio anonimo, un ragazzo normale, di strada senza particolari eccezionalità, il ragazzo in questione è vivo e vegeto, non è un eroe, ed è presente in sala a risentire le vicende del suo breve passato (ha poco più di trent’anni l’omonimo del titolo).
La presenza dell’Emanuele Miriati di persona, un tipetto basso e simpatico con il corpo coperto di tatuaggi ed il sorriso furbo da Robbie Williams, fa esaltare tutto il testo appena sentito, sublima l’attività drammaturgica e d’intervista che Goretti ha effettuato con il padre, l’ex compagno di lavoro albanese, l’amico trans brasiliano. Ne esce fuori una storia di periferia fatta di giri con le prostitute e scambisti, cialis, disoccupazione, di una famiglia per bene, di una vita presa per quel che è: una somma di giorni da inventarsi ogni mattina. Il domani si vede male, il futuro è nebbioso ma non se ne fa drammi. Un po’ d’incoscienza, un po’ di menefreghismo, molte alzate di spalle. Goretti parla davanti ad una tomba dove il suo Miriati si confessa: lì sotto potrebbe esserci il se stesso che ha trascurato, fino ad ucciderlo, tutto quello che poteva essere, perfino calciatore.
C’era una volta “Essere John Malkovich” che esaltava la vita stra-ordinaria dell’attore hollywoodiano. Qui invece si esalta la più gretta normalità, i giorni uguali, nessuna medaglia o appuntamento di cui andare fiero. Anzi gli appunti che Goretti fa diventare scene (perfetto il meccanismo ad incastro di tetris tra dei “buio” infinitesimali a dividere i personaggi delineati e delimitati dall’accento ma anche da impercettibili configurazioni e posture corporali) ci parlano di un mondo che i moralisti definirebbero, senza mezzi termini, squallido, border line, di frontiera, trash, dove tutto si assomiglia, dove niente sembra aver valore, dove una quieta rassegnazione porta ad una rabbia che non sa in che direzione colpire, dove sfogarsi e sfociare. Una bestemmia non ci salverà.
Fondamentale per questo processo di immedesimazione da parte dell’autore-attore ma anche della platea (nota positiva sul pubblico di trentenni che ha affollato La Gualchiera di Montemurlo) che di volta in volta entra in un personaggio avendone accanto la copia vivente (ossimoro che fa frizione) è anche la produzione e la vendita, al di là dell’ingegno di merchandising, delle magliette con la scritta “Io sono Emanuele Miriati” (che è un po’ un’ammissione simile alla “Nessuno tocchi Caino”), alla quale si sono prestati anche personaggi pubblici come Simone Cristicchi, Paolo Rossi, Daniele Silvestri, Faso di Elio e Le Storie Tese, Antonio Rezza, in mezzo a tantissime e comunissime persone, che rende la definizione del sé, l’entrata nella vita dissacrante del protagonista, la raffigurazione e perfino la mitizzazione del marginale, un atto di sociologia estrema in un mondo che non ha più santi ed eroi, un tessuto sperduto dove i miraggi sono la Serie A ed il Grande Fratello. C’era una volta “Essere o non essere”.
“Essere Emanuele Miriati”, di e con Riccardo Goretti. Visto a La Gualchiera di Montemurlo, Prato, il 22 ottobre 2013, nell’ambito del festival “Young Station”.