Anna's corner — 02/11/2013 at 22:54

Daniele Urgo/Done: il post grafitismo della laser art performance. Il Bansky (multimediale) italiano

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Daniele Urgo aka Done 

Tutto è cominciato da questa immagine in cui il quadro di Hayez, Il bacio veniva “crackato” dal giovane artista Daniele Urgo aka Done, con l’inserimento “clandestino” del classico venditore di rose pakistano. Titolo: Il bacio nel posto sbagliato al momento sbagliato. Inserimento fatto a regola d’arte (digitale) come un vero remake, che è poi il titolo della serie creata per (s)doppiare i classici.  www.behance.net/gallery/REMAKE/7279731

La sera stessa che l’urban artist posta questa immagine sul suo profilo pochi mesi fa, il contatore di accessi sale a dei picchi mai visti: in poche ore sul più noto social media i “mi piace” arrivano A 15 mila, 8mila condivisioni e la rete si scatena. Ora è immagine profilo di migliaia di persone e dalle bacheche a twitter, tutti sembrano discuterne a 140 caratteri alla volta. L’artista diventa una web celebrity e l’immagine un caso di successo virale. Si scomoda persino la rivista Wired. Sarà arte o adbusting? Ai suoi detrattori Done, che ha terminato da poco i suoi studi accademici, risponde per le rime proprio su una bacheca di facebook.  Il modo più rapido per arrivare a tutti.

<<Cercate di vedere quello che c’è oltre al vostro naso, ora che ho finito il mio percorso con onore, penso di potermi permettere di dire la mia. Più andiamo avanti così, più molti artisti che vorrebbero emergere rimarranno bloccati, per il semplice fatto che non sono in linea con il passato. Nasciamo artisticamente dalle accademie, studiamo per anni e viviamo esperienze a diretto contatto con l’arte. E una volta che ne usciamo, non possiamo mettere in pratica il nostro pensiero, nato da anni e anni d’educazione? Continuiamo così, continuiamo a porre veti, a parlare di censura insensata, il classico esempio per il quale molti giovani se ne vogliono andare e non possono dare un contributo al nostro paese, seppur minimo. A volte una risata può davvero cambiare la giornata; in un periodo dove il lavoro non esiste, nel malcontento generazionale in cui la cultura e l’arte sono l’ultima cosa che viene presa in considerazione perché c’è solo bisogno di soldi per vivere. Quante persone non hanno mai visto certe opere e una volta vista una rivisitazione, hanno potuto apprezzare in toto quella originale? Perché dovete pensare che un giovane debba SEMPRE essere uno studente, senza un pensiero? Avete provato ad immedesimarvi un minimo in tutta quella generazione falcidiata dalla crisi e dalla instabilità, nata con la televisione (e sappiamo tutti che televisione..) e cresciuta con internet, che tutti i giorni si sente dire che non avrà un futuro? Conoscere la società, viverla in prima persona e rappresentarla non è forse quello che per anni c’insegnate? Il computer e internet deve per forza essere un segno di debolezza e frivolezza, solo perché è a disposizione di tutti? Avete idea di cosa voglia dire ricostruire da zero con un computer delle immagini, delle forme, delle ombre ed inserirle al posto giusto, con la dimensione giusta, con la sfumatura di colore più adeguata?>>

Ha ragione lui: andando a guardare bene, l’operazione di rivisitazione digitale non è solo curiosa e bizzarra, e non c’è solo il ritocco digitale: l’arte multimediale per intero può effettivamente travolgere gli argini della tradizione, creare disturbo al sistema dell’arte, mettendolo in crisi, proprio come il venditore di rose, inopportuno e non gradito. In questo senso il quadro –e tutta la serie dei Remake – è molto simbolico. L’arte digitale non va al traino di quella tradizionale e usare le stesse metodologie critiche e gli stessi principi estetici per leggerla, catalogarla, interpretarla è un grave errore. Rivendicare la specificità del linguaggio digitale, come fa indirettamente Done, è corretto; quello che bisognerebbe aggiungere -e impegnarsi a insegnare dentro e fuori le Accademie- è una maggiore sensibilità generale a queste nuove forme d’arte nate con i new media e che si impongono sempre di più ma senza soppiantare quelle passate. E a imporre questa diversità in questo caso, non è un’arte qualsiasi, è l’hacker art, vera arte di “interferenza”. Tutto quello che Daniele fa (performance di video live, laser paiting, fondali video interattivi, mapping live), lo fa infatti, con gli strumenti della rete appropriandosi della una filosofia “hacker” di condivisione dei materiali, di socializzazione dei saperi tecnologici, di uso collettivo di software liberi. Jaromjl docet. Ovvero: open non è free.

Perché si dedica all’arte digitale?

<<Credo che la digitalizzazione dell’arte sia un fenomeno che è ormai realtà. Trovo insensato pensare che l’arte digitale non abbia un valore quanto l’arte tradizionale, l’arte si evolve, come ogni espressione umana. Studio le caratteristiche del mezzo tecnologico, soprattutto quello più sottovalutato (dall’applicazione pensata come passatempo, a quella open source, fino al programma più diffuso), per cercare di tirarne fuori le sue potenzialità comunicative e non solo estetiche, valorizzando l’idea che la digitalizzazione è a portata di tutti, come può essere l’arte.>>

Come giudica il successo della sua immagine tratta da Il bacio?

<<E’ stato inaspettato per me. La serie d’immagini “Remake” era nata come un’idea giocosa. La mia intenzione era quella di rivisitare in chiave contemporanea dei classici della storia dell’arte, un po’ per scherzo, un po’ per accendere un interesse nello spettatore nel riammirare le opere originali. Molte persone si sono riviste in quell’immagine e in molti si sono fermati a quello, altri invece sono andati oltre, altri ancora hanno rifiutato l’immagine per principio, escludendone un valore artistico; comunque sia, ha dato un’emozione e quello era il mio obiettivo. Vorrei inoltre sottolineare che il mio scopo non era creare un’immagine virale, come molti possono credere. Dietro c’è un’attenzione particolare nella costruzione del remake, dai particolari visibili (come il venditore di rose) a quelli meno visibili (le scritte cancellate sui muri, non sono lì a caso); oltre alla complessità di un’elaborazione digitale tecnica, c’è anche una riflessione estetica sul senso dell’operazione. Dal punto di vista tecnico ogni tanto rispolvero la tavoletta grafica e utilizzo quelle tecniche di fotomontaggio e ritocco fotografico utilizzate in genere per la pubblicità. Attraverso i programmi classici di queste tecniche e cercando di applicare la semiotica, mi diverto nell’intreccio tra arte e ironia.>>

La sua è un’operazione di hacker art, si riconosce nel movimento?

<<L’Hacker Art la considero sinonimo di condivisione libera e di contemporaneità. Penso che lo scambio, la conoscenza, internet e le nuove tecnologie debbano essere alla portata e per tutti. Inoltre penso che sia più un modo di procedere nella condivisione di un’emozione e del sapere, di farsi beffa di quei modi di pensare bigotti ristretti, spesso tabù di cui non parlare o toccare, tanto radicati nella nostra società. La cosa che più mi piace nel pensare all’Hacker Art è che più che un procedimento artistico, è un insieme di più procedimenti che la rendono un modo di muoversi decisamente innovativo.>>

Lei è partito dalla street art (con evidenti omaggi al maggior artista underground, Gianluca Lerici, aka prof. Bad Trip) e ora ti dedichi al laser painting, un’evoluzione del grafitismo in epoca digitale. Ci spiega questo passaggio?

<<Si tratta di una ricerca approfondita sull’evoluzione dell’arte urbana, attraverso l’utilizzo delle nuove tecnologie. Praticamente ho pensato che la street art stesse vivendo un periodo di stallo e che serviva una forma diversa per ravvivare e rinnovare i procedimenti artistici legati all’arte urbana, introducendo la video/performance nella street art. Così ho pensato di utilizzare un’applicazione open source (L.A.S.E.R. Tag) creata dai Graffiti Reseach Lab, che permette il riconoscimento del segnale del laser verde, traducendolo in una traccia che si crea in diretta. L’applicazione però non aveva avuto cambiamenti significativi nel tempo (quando la presi in mano, l’ultimo aggiornamento risaliva al 2006), probabilmente perché era stata creata esclusivamente per fare tag. Così ho pensato di portare avanti quest’applicazione, soprattutto nell’utilizzo, creando pennelli, cambiando colori, trasformando i difetti del programma in vantaggi, gestendo nuove periferiche esterne e modificando il procedimento.>>

Come funziona la performance?

<<La performance racconta una storia, in genere legata ad un immaginario onirico che però si riflette su temi sociali, culturali, reali, come in un sogno o incubo appunto. Praticamente, attraverso una webcam, il raggio del laser viene tradotto dal computer come traccia che, in tempo reale, viene modificata manualmente in diverse caratteristiche, a seconda di come si vuole la dimensione, il colore, il pennello, il tipo di tratto. Non c’è la possibilità di tornare indietro (ctrl+Z per intendersi) e il tratto è difficile da gestire, perciò serve parecchio allenamento e capire come tradurre il proprio tratto grafico con un nuovo mezzo. Inizialmente la performance nasce in esterni, come vera arte urbana, quindi la ricerca della superficie su cui operare è complessa. Va calcolata la luminosità dello spazio, il colore della superficie, la distanza (serve anche per scegliere la potenza del proiettore) e verificare che il tipo di superficie sia regolare, liscio e sgombro da balconate e finestre. In realtà la ricerca di queste superfici è più semplice di quanto possa sembrare, le città sono piene di potenziali “lavagne di proiezioni”. Il vero problema è l’elettricità, ma ci sono diversi metodi per sopperire la mancanza, da un allaccio diretto da una casa all’utilizzo di un generatore (che comporta a sua volta un problema di rumorosità, ma maggiore mobilità). Chiaramente in interni questi problemi non si presentano. L’evoluzione della performance ha portato maggiori compatibilità con spazi indoor, più legati alla qualità d’immagine (in relazione al buio) e all’impiego di mezzi tecnici più sofisticati che in esterni sarebbero difficili da gestire, ricreando così la situazione ideale. Alla fine che la performance sia esterna o interna, sono due modi diversi di vivere la stessa esperienza. Personalmente preferisco l’esterna. In interna è come il post-graffitismo: facilmente raggiungibile e visibile, ma non nel suo habitat naturale.>>

Fa anche animazioni video?

<<Credo che quando si parla di arte digitale sia molto facile passare in diversi campi dell’arte e farli influire tra loro. Cerco di unire tutte le esperienze artistiche che conosco e che pratico, cercando di creare qualcosa di multidisciplinare e interattivo. Per questo motivo è più facile anche la collaborazione e trovare nuove combinazioni diventa sempre più stimolante. L’animazione è un esempio di come unire video ed illustrazione, per poi integrare il tutto anche con la performance.>>

Live set, vjing, videoart live, electronic live, visual set, digital performance… che definizioni usa per i sui live?

<<In effetti è un po’ complesso definire con esattezza in un termine. Io li definisco semplicemente performance di laser painting, anche se ultimamente grazie alla collaborazione con l’artista Ai Di Ti Vision (Angela Di Tomaso), stiamo introducendo l’interazione tra le due discipline (visual e laser painting), cercando di creare una forma narrativa del tutto singolare, a metà tra l’utilizzo del laser come pennello e del video in sound react come scenografia dinamica del racconto. Inoltre stiamo cercando anche altre forme d’interattività e sperimentando nuove soluzioni.>>

Quali sono i gruppi che fanno multimedia o digital performance che preferisce?

<<Mi sono avvicinato come interesse sull’interattività tra video e spazio osservando le scenografie di Josef Svoboda, del gruppo Motus, Studio Azzurro, i mapping di AntiVJ e Urban Screen, interessanti sono gli interventi urbani del gruppo Sweatshoppe e dei Graffiti Research Lab.>>

Che ne dice dell’azione di Bansky che ha fatto vendere a un vecchietto in strada, delle sue opere a 60 $?

<<Bansky ha sempre iniziative interessanti e molto riuscite. Forse l’impatto mediatico del suo arrivo a New York però, ha tolto una delle cose fondamentali dell’arte urbana: la sorpresa. Questo penso abbia portato molte persone a pensare che quelle opere non erano di Banksy, ma di una qualsiasi persona che voleva farsi 60 $ approfittando del suo arrivo in città. Il concetto è semplice, di facile comprensione e di forte impatto con un’arte alla portata di tutti; forse però fatta nel momento e nel posto sbagliato. O forse semplicemente le avrebbe dovute regalare: a parer mio sarebbe stato ancora più notevole, senza togliere nulla a Banksy.>>

 

 

 

 

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