Ogni spettacolo di danza contemporanea pone degli interrogativi cui è impossibile evitare di dar risposte o, almeno, di provare a dar risposte, di cercarle. Interrogativi che riguardano non solo il senso specifico dell’uno o dell’altro spettacolo, ma proprio della danza in sé in quanto prassi artistica. Ed anzi, più uno spettacolo apre il range delle sue possibili significazioni, più si moltiplicano gli interrogativi che è legittimo porsi: ad esempio, fino a che punto è possibile lasciare agli spettatori, a ciascun spettatore, libertà di interpretazione senza che la molteplicità delle letture possibili intacchi, o azzeri del tutto, la possibilità stessa che uno spettacolo esista in quanto tale e unitariamente come oggetto di percezione estetica.
Ovviamente né questa interrogazione, né altre simili (la scelta o la necessità di fornire al pubblico un figlio di sala che contenga, oltre agli estremi materiali del lavoro, anche delle indicazioni di senso, oppure la dialettica tra struttura e improvvisazione che è centrale nella costruzione di molte coreografie), sono nuove ed anzi tutta l’arte contemporanea, a partire dal ‘900, sembra dispiegarsi criticamente a partire domande del genere e da ragionamenti di tal fatta. È dunque inutile o superfluo porsi questo genere di interrogativi? No, no davvero, perché essi restano incardinati, ed anzi sono impliciti e centrali, nella operatività stessa del coreografo o, più generalmente, dell’artista che realizza questo tipo di lavori. Questa brevissima premessa per riflettere (su) e riferire di “Anticorpi”, la coreografia di Roberto Zappalà (ma diventa via via più significativo ed evidente l’apporto di Nello Calabrò, discreto dramaturg della compagnia), che, come tassello specificamente coreografico del più ampio progetto “Sud-virus o dell’appartenenza”, s’è vista a Catania al Teatro Scenario Pubblico dal 6 all’8 e dal 13 al 15 dicembre; in scena a danzare Gaetano Badalamenti, Maud de la Purification, Alain El Sakhawi, Valeria Zampardi, Roberto Provenzano, Fernando Roldan Ferrer, Ilenia Romano; il tappeto sonoro ad andamento ciclico e l’affascinante costruzione del percorso musicale (con inserti di Bach, Herbert, Paganini, Vivaldi) sono di Salvo Noto e non appaiono certo di rilievo secondario nella costruzione dello spettacolo.
In qualche modo l’idea è questa: come negli esseri viventi gli anticorpi reagiscono ai virus e si muovono per comprenderli, indebolirli, assimilarli, abbatterli, così nella danza, in questa danza, i danzatori si muovono, autonomamente e/o insieme (e il caos dei movimenti è solo apparente perché la finalità è comune), per comprendere, indebolire, assimilare e abbattere i tanti virus della “normalità” corporea e gestuale, i virus di ogni automatismo percettivo, i virus che rendono inautentica insomma la nostra vita. In questo caso la riflessione si orienta sui virus tossici e contagiosi (oppure se si vuole, in una diversa prospettiva, anche benefici) dell’appartenenza. Virus che si muovono a diversi livelli della nostra quotidianità, che assediano e stringono le nostre giornate, impongono limitazioni insormontabili alla consapevolezza con cui proviamo a vivere la totalità del nostro essere: le appartenenze sentimentali, familiari, interpersonali (la danza vissuta e proposta insieme tra allineamenti, duetti, corse, piani e corpi che s’intersecano, improvvisazioni che precipitano e si cristallizzano in emozioni), le appartenenze sociali, territoriali, urbane, nazionali, politiche, culturali o etniche (suggerite dagli nazionali francese, italiano, europeo o da un antico e tenerissimo scioglilingua in dialetto siciliano).
Ecco, entro queste coordinate suggerite più che imposte, si muove con libertà e intensità costante questa coreografia di Zappalà e del suo ensemble creativo: un’intensità e una libertà che, tuttavia, non danno mai la sensazione d’essere concluse, perfette, appagate di sé stesse, laddove invece sembrano permanere un oltre e un’alterità che val la pena di esplorare.
Visto al Teatro Scenario Pubblico di Catania il 9 dicembre 2013
crediti fotografici di Alfredo Anceschi