Teatro, Teatrorecensione — 03/02/2014 at 00:28

Saverio La Ruina fa onore alla condizione femminile con “Dissonorata” , storie di donne che chiedono giustizia

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Se il dialetto, ogni dialetto, è la lingua del cuore, la stretta parlata calabro-lucana di Saverio La Ruina in “Dissonorata. Delitto d’onore in Calabria” ha raggiunto, travalicando il logos, il cuore del pubblico plurilingue di Bolzano, che qualche difficoltà nel comprendere l’ha certamente avuta.

Pasqualina riempie di sé una scena vuota; da una sedia racconta il destino corale di altre donne insieme al suo, con la semplicità piana e terribile delle tragedie dell’antico teatro greco, lontane nel tempo ma vicine nella primordialità di sentimenti ancestrali alle storie di violenza e di morte che leggiamo quotidianamente sui giornali; storie di donne violate e abbandonate, ingannate e tradite, coraggiose e spaventate sull’abisso della solitudine, nella trappola dei sentimenti e dei sogni frantumati, del bisogno di sentirsi amate.

Saverio La Ruina, accompagnato dal vivo da musiche che accentuano e modulano le suggestioni del mutare del suo racconto, veste semplici panni e si trasfigura nella voce e nei gesti, tra sorrisi e sospiri, pugni chiusi dal dolore e dita nervose che titillano la stoffa della vestaglietta dimessa, gambe nervose e piedi che dondolano sfiorando il pavimento. E’ bambina innocente che si occupa prima degli agnelli, poi delle pecore e poi delle mucche, giovane donna inconsapevole del suo destino e vecchia che ha superato le tempeste della vita. Il suo racconto è quello di un mondo patriarcale dai confini stretti e dalla dura quotidianità, fatto di fatica e di lavoro, di poca istruzione, di sguardi furtivi, di tradizioni e di riti da rispettare, intriso da pregiudizi. Un mondo sospeso nel tempo e nello spazio, che dalla Calabria del dopoguerra può portarci ovunque.

Pasqualina racconta di sé e delle donne di famiglia, delle vicine di casa, del terrore di restare zitelle, degli eterni lutti, dell’incantamento dell’innamoramento, della solitudine dell’abbandono, dell’ineluttabile gravidanza e dello spregio estremo del delitto d’onore per mano del fratello, una fattispecie di reato che prevedeva specifiche attenuanti che nella legislazione penale italiana sono state abrogate soltanto nel 1981.

Pasqualina però non muore bruciata viva, sopravvive, e con l’aiuto di un’altra figura femminile, una zia “Stidda”, stella e angelo custode, vive e dà vita. Attraversa il fuoco e riesce a passare oltre, invecchia, senza perdere la semplicità del suo incantamento. Gli uomini restano sullo sfondo: il padre/padrone gigantesco e opprimente, l’innamorato vile e ingannatore, il fratello che per difendere l’onore della famiglia si arma di una bottiglia di liquido infiammabile, lo zio che non la vuole in casa. Pasqualina li descrive con nitido dolore ma con distacco, senza rancori, senza odio, considerandoli attori del destino al quale non poteva sfuggire.

Il giorno di Natale, nella stalla di zia Stidda, da “Dissonorata” partorisce il suo bambino, e lo chiama Saverio; come l’attore e regista che ha scritto la sua storia e la interpreta sul palcoscenico. Che Pasqualina sia raccontata da un uomo non è solo un potente richiamo alla radice più antica del teatro, che vedeva in scena attori anche per le parti femminili. E’ anche una profonda testimonianza di amore e di attenzione verso il mondo femminile, uno scavo nell’anima condotto con rara sensibilità senza rinnegare la propria parte maschile, con una cura particolare per quegli aspetti culturali ed etnografici, di mentalità e tradizioni, che riportano a un mondo conosciuto, tramandato e intensamente amato, anche attraverso l’uso del dialetto che ne è potente ed espressivo linguaggio.

Ca mò Saveriu miju ha fattu grannu, ha fattu nu pìazzu i giuvinu gàvutu gàvutu gàvutu, ca quiddu fazzu puri fatica mò a lu guardà tantu ch’è gàvutu, ca a tannu ji ci agghiu rimasta cu a capa vasciata, a quidda vota c’avìu svinuta nnanti a funtanedda, a tannu ci agghiu rimasta c’u mentu ncollatu a lu pìattu. Ca pu dici c’un è veru ca dicìdi tuttu u distinu e u miju ha statu quiddu i caminà cu a capa vasciata a cuntà i petri pi nterra”

Che mo Saverio mio s’è fatto grande, s’è fatto un pezzo di giovanotto alto alto alto, che faccio pure fatica mo a guardarlo tanto ch’è alto, che da allora io ci sono rimasta con la testa abbassata, da quella volta ch’ero svenuta davanti alla fontana, da allora io ci sono rimasta col mento incollato al petto. Che poi dicono che non è vero che decide tutto il destino e il mio è stato quello di camminare con la testa bassa a contare le pietre per terra.”

Da giovane Pasqualina era costretta per pudore a camminare a testa bassa, e sperava di sposarsi per poter guardare il mondo a testa alta; per le ustioni il mento le era rimasto incollato al petto, e il destino l’aveva obbligata a contare le pietre per terra, a una a una, per tutta la vita. Ma si era sottratta al destino di solitudine e di stigma sociale di zitellona, e anche a quello di eterna vedova, paludata di nero. Il mondo cui apparteneva non prevedeva altro. Lei, però, era altro. Era stata diversa.

 

Visto al Teatro Comunale di Gries (Bolzano) il 1 febbraio 2014 per l’Arte della Diversità

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