FIRENZE – “Non moriamo perché invecchiamo, ma invecchiamo perché dobbiamo morire”, Umberto Galimberti.
Nel disordine più completo e nel caos relazionale, nel disfacimento della famiglia, intesa come istituzione solida e classica e immobile e fissa, forse qualcosa si sta muovendo. C’è un nuovo sentimento senza la paura di mostrarlo, di farlo vedere, di esporlo alla luce. Se i figli devono sempre, per crescere ed autoaffermarsi, “uccidere” metaforicamente i loro padri, se l’allievo deve comunque tentare di superare, ed abbattere, il proprio maestro, creando quella patina di competizione acida, adesso siamo di fronte ad una nuova pietas, al riconoscersi nei panni, nei volti, nelle movenze dell’anziano genitore.
Il Cantiere Florida, dove passa la migliore danza contemporanea a Firenze e dintorni, ci ha messo davanti, a pochi mesi di distanza, prima “Scena Madre” di Abbondanza/Bertoni, una figlia e sua mamma ultrasettantenne, ed in questi giorni “Parkin’son” di Giulio D’Anna assieme al padre al quale è stata diagnosticata la malattia che dà il nome al pezzo. C’è una riscoperta dell’infanzia, una rivitalizzazione dell’adolescenza, un prendersi cura, un donarsi a chi ci ha donato, un passaggio di consegne e di memoria. Tutto cominciò con il delicato e rarefatto “Osso” di Virgilio Sieni, dove il coreografo fiorentino danzava (lo abbiamo visto all’interno di una scenografica, e reale, vecchia bottega di statue e gessi e calchi polverosi al suo festival “Oltrarno Atelier” agli Artigianelli nel quartiere di Santo Spirito) con il genitore ottantenne con piccoli movimenti di assoluta poesia.
“Scena Madre”, anche se partono dalla stessa indagine, andare a ritroso, in un cammino come fossero le mollichine di Pollicino o il filo di Arianna o il gomitolo riannodato verso anni dove il genitore aveva gli stessi anni del protagonista, è molto diverso da “Parkin’son”. Il primo è più “spettacolare”, è più patinato, ha più una parvenza di piece, ricercata, limata, soppesata, mentre il lavoro di D’Anna ha una base ed un plot molto più autobiografico, con inserti fotografici, soprattutto sul finale commovente (in questo caso si può a ragione l’espressione “fil rouge”), con interventi vocali fuori campo, in una sorta di diario di bordo, resoconto degli accadimenti, agenda degli appuntamenti che scandiscono una vita, più o meno importanti, succedutisi (da morti alle malattie, dal primo bacio al cambio dell’auto) negli anni precedenti, nel percorso intrecciato tra i due. Non si smette mai di essere figli, non si smette mai di essere genitori.
In tal senso ci fu anche la Raffaello Sanzio con “Il concetto del volto del figlio di Dio” dove un padre, in un bianco assoluto, non riesce più a trattenere scorie ed escrementi imbrattando e macchiando, nel disfacimento dell’esistenza, il poco tempo rimasto. In “Scena Madre” sono gli oggetti quotidiani e le azioni consuete ad impaginare il campo, anche perché sul palco ci sono due donne, una delle quali della generazione delle casalinghe o almeno di quella che i mariti, con sottile ma anche esplicito machismo definivano “le regine della focolare”, il ché, in soldoni, significava rispettare i dovevi di cucinare, lavare, stirare. La donna, a differenza dei due uomini in “Parkin’son”, visto che ha in dono-sacrificio la possibilità della procreazione, ha un ulteriore passaggio d’esperienza.
Ma è sempre uno specchio. Non mi giudicare per quello che ho fatto, lo avresti fatto anche tu, non continuare a pensare ad alcuni momenti del passato perché forse tu oggi reagiresti, nelle medesime circostanze, anche in maniera peggiore. Ecco, la comprensione arriva piena diretta come un Tgv a pieno regime. Se i colori sono fondamentali nel lavoro della Bertoni, che cambiano pastello, che giocano rincorrendo la musica soffice in un susseguirsi di simbolismi catartici, palla- gravidanza- pietà michelangiolesca ribaltata- lavatrice- utero, nella composizione dei D’Anna è l’assenza, la pulizia di elementi che fa risaltare il corpo a corpo dei due, tensione-tenzone, lotta greco romana e sumo, nei movimenti a specchio, riprodotti e riproducibili, che prima il figlio, per imparare a stare al mondo, ricrea davanti al suo modello che crede irraggiungibile, e che poi il padre faticosamente tenta di reinsegnarsi nella lentezza, nella patologia che avanza, nell’età che rallenta ossa ed articolazioni.
C’è amore che esonda ma che arriva dopo il giusto confronto tra pari, il guardarsi negli occhi, anche l’offesa e la scalfitura dei ruoli, l’abbassamento delle difese, il colpire per poi abbracciarsi “come pugili dopo un incontro, come gli ultimi sopravvissuti” in quelli che sono stati, per entrambi, “I migliori anni della nostra vita”. In “Parkin’son” (il titolo pone anche la questione della progenie che “parcheggia” gli anziani non considerandoli più degni e rispettosi di stare in mezzo al mondo feroce che corre e tutto tritura, considerandoli un peso, una zavorra, un inutile carico da trascinare) c’è un guardarsi da “intervista doppia”, un ritrovarsi sotto la scorza degli abiti dissimili e diversi, uguali sotto pelle, stesse mutande e stessa canottiera, stesso sangue, stesso dna. Siamo diversi ma veniamo dagli stessi milioni di anni e miliardi di geni incastonati che hanno permesso, nelle difficoltà nella malattia dell’anziano nella scoliosi del figlio, di esserci, di urlare al mondo la resistenza. Il patto tra le generazioni è questo, il non arroccarsi da una parte, la non aggressione dall’altra. E’ l’accettazione il segreto non per la pacificazione finta ma per la serenità e la comprensione.
Ed i figli servono anche, nel caso di Sieni e Bertoni e D’Anna, a rimettere in discussione, a farsi travolgere e sconvolgere, nel farsi portare in un altro mondo. Qui sono i figli che prendono per mano i genitori e li accompagnano nel loro spazio, glielo mostrano, gli chiedono collaborazione, ancora uniti. In entrambi i lavori emerge l’imprescindibilità dell’uno rispetto all’altro: il figlio non sarebbe al mondo senza il padre, il padre non sarebbe quel che è (certamente non sarebbe su di un palco a fare quello che non sapeva di poter fare) senza l’apporto, l’approccio della prole. Si sorreggono senza pietismi né sensi di colpa da inculcare. E’ un’idea di morte da sublimare, allontanandola, facendone essenza, senza esorcizzarla infantilmente. Ed il cordone ombelicale, che si tratti di donne o di uomini, di madri o di padri, non si spezza, non si esaurisce.
“Scena Madre”, regia e progetto musicale: Michele Abbondanza. Coreografia: Antonella Bertoni e Michele Abbondanza. Con: Paola Faleschini e Antonella Bertoni. Scene e Costumi: Antonella Bertoni. Luci: Andrea Gentili. Produzione: Compagnia Abbondanza/Bertoni. Visto al Cantiere Florida, Firenze, il 9 novembre 2013.
“Parkin’son”, concept e direzione Giulio D’Anna. Creazione e performance Giulio e Stefano D’Anna. Musiche originali Maarten Bokslag. Disegno luci e scene Theresia Knevel e Daniel Caballero. Produzione Fondazione Musica per Roma, stichting Gillen in collaborazione con Officina Concordia (progetto di Comune di San Benedetto del Tronto e Amat) e Civitanova Casa della Danza (progetto di Civitanova Danza/Amat), con il supporto di: Danceworks di Luana Bondi-Ciutti, Anna Maria Quinzi – Giulio D’Anna fa parte di “Matilde. Piattaforma regionale per la nuova scena marchigiana. Un progetto di Regione Marche e Amat”. Visto al Cantiere Florida, Firenze, il 28 febbraio 2014.