Zaira De Vincentiis, napoletana è una delle più note costumiste teatrali italiane, anzi come si dovrebbe dire costume designer: progetta il costume, le stoffe, i colori dello spettacolo, in armonia con il disegno registico. Il suo lavoro più recente è quello per l’acclamato Antonio e Cleopatra di De Fusco con l’interpretazione magistrale di Luca Lazzareschi, definito da Renato Palazzi “il miglior interprete shakespeariano degli ultimi decenni”. Un spettacolo che deve anche un po’ del suo successo agli specialissimi costumi-protesi indossati dagli attori, che dovevano evocare antiche statue che emergevano dall’ombra del tempo e della memoria. Per il regista russo Andrej Končalovskij ha realizzato i costumi per La bisbetica domata; il suo apprendistato parte da Napoli, la sua città, dove vive ancora oggi e insegna, lavorando con Roberto De Simone.
Come ha iniziato la sua carriera?
Nei tanti inizi che si hanno nel teatro, ogni volta è la prima volta; il lavoro e il regista che mi ha formato è stato Gianfranco De Bosio. Avevo vent’anni e mi invitò a fare Aida per l’Arena di Verona; avevo già lavorato nello spettacolo, da giovane costumista intraprendente. Quindi il primo contatto con il mondo del lavoro teatrale è stato di alto livello e questa Aida mi ha dato un’impostazione importante. Contemporaneamente il regista con cui ho avuto la possibilità di iniziare di nuovo alla pari, mio coetaneo, è stato De Monicelli, del Gruppo della Rocca, a Torino. Questo per quanto riguarda i primi anni caratterizzati dalla presenza del grande maestro e del giovane regista motivato, dotato di grande talento preparazione e fantasia. In un secondo momento poi ho collaborato con Saverio. Marconi e sono sbarcata nel mondo del musical, dalla fine degli anni Ottanta fino agli anni Novanta; con lui ho lavorato tredici anni fino al Pinocchio del 2003.
Ma quale è stato il tuo padre artistico, il regista centrale nei tuoi lavori?
Roberto De Simone. E’ napoletano come me, io sono cresciuta nell’ammirazione del suo teatro, penso alla Gatta Cenerentola…..io crescevo artisticamente a Napoli e un giorno gli sono stata proposta e abbiamo fatto insieme Il malato per apprensione di Molière, poi abbiamo lavorato insieme per quasi vent’anni. Dal 90 al 2006. Il Vommero a duello, operina dell’Ottocento tra Cimarosa e Starace con canovaccio settecentesco, De Simone ha messo insieme in maniera sublime opera colta e opera popolare e ne ha fatto uno spettacolo sul Settecento napoletano.
Se dovessi spiegare qual è il tuo stile, come lo definiresti?
Indubbiamente la mia inclinazione va verso un’immagine fantastica: io letteralmente vado a trasognare, è una inclinazione che parte da dentro, e nel musical questo lato fantasioso poteva venire fuori in maniera diretta e genuina. Il mio è un immaginario caratterizzato da humour; invece una corda che non mi appartiene o che affronto con fatica, è quella naturalistica. Lo spettacolo“storico” lo affronto con diligenza ma ho bisogno comunque, di deviare verso il fantastico. Mi viene spontaneo fare così.
Come sintetizzi il lavoro del costumista in rapporto alla regia?
La creazione di un mondo, la capacità di esprimere un’idea che parte insieme ai primi “fili” orditi dal regista; si tratta di allinearsi con lui ad un’idea unica di linguaggio. Il sistema di lavoro che io adotto, all’interno di queste linee guida che con il regista ci diamo, è la ricerca del punto di vista e poi una ricerca più specifica in cui si trova un modo per esprimersi basato su ciò su cui abbiamo deciso di muoverci. Poi una volta intrapresa una strada stilistica, questa deve essere estesa a tutto il progetto.
C’è un costumista di riferimento?
Per il costume il riferimento degli anni della mia gioventù era Danilo Donati: quando si andava a vedere i film di Fellini ci si liquefaceva! Un bellissimo esempio di come, usando materiali apparentemente impropri, si riuscisse ad avere effetti straordinari, proprio nella loro trasfigurazione. Lui sapeva trasformare i materiali secondo un’emozione visiva. Ho preso questo da lui: creare qualcosa che possa scatenare una curiosità materiale e che restituisca una idea. Ricerco una materia che dia una sensazione.
Come mai le recensioni non parlano mai di voi come categoria di professionisti del teatro?
Un’ idea me la sono fatta proprio qua in Accademia: penso che il critico dovrebbe conoscere bene la materia e talvolta non ne ha le competenze; bisogna avere una sensibilità particolare, una cultura visiva e anche specifica del settore. Alcuni ne parlano genericamente, altri usano pochi aggettivi non sempre appropriati, tutti gli altri liquidano l’argomento.
Come è stato il lavoro sulla Bisbetica domata con Končalovskij?
E’ stato un lavoro difficile, perché mentre io adotto un sistema abbastanza ordinato, con un progetto che una volta approvato può avere solo qualche modificazione, lui concepisce lo spettacolo come un continuo work in progress. Non ha mai voluto veramente “definire” ma continuare a ricercare…il lavoro non aveva margini, c’erano sempre nuove ipotesi, e questo ha creato un po’ di fatica, ma che dire…. È un grande regista e ha rovistato nel cervello alcuni materiali …..e questi materiali eravamo noi! Attori, scenografi, costumisti! Abbiamo iniziato il lavoro e di quello che noi gli offrivamo lui ha scelto una gamma di note che continuamente cambiava…Per il sistema nostro, italiano, questo è disorientante ma il risultato effettivamente, c’è stato. Gli input che ci aveva dato nella ricerca erano importanti, concatenati, e alla fine tutto si è inanellato e la regia ha espresso un giusto equilibrio nella scelta di una immagine precisa, netta, con un’ambientazione da Ruggenti Anni Venti.
Con De Fusco per Antonio e Cleopatra invece?
E’ stato un lavoro più libero, si è lavorato su un concetto che mi ha richiesto espressamente De Fusco sin dall’inizio, su una essenza, un’ idea: rievocare delle figure antiche, romane, che sono esistenti nella nostra memoria: Antonio e Cleopatra vivono con noi da sempre, li abbiamo nella mente! E l’altra indicazione precisa era quella di “invitarli” in uno spazio completamente nero. Così apparivano, erano apparizioni, come fantasmi di loro stessi! E’ la celebrazione di una stessa storia che viene ogni volta rimessa in scena. L’idea centrale quindi, era quella di far apparire i personaggi dal nero, solo bagnati dalla luce. Il concetto era semplice ma doveva riuscire sulla scena, dovevamo arrivare a un risultato eccellente di luminosità e tenebra. Così abbiamo lavorato su volumi neri, sui corpi, corpi-scultura ottenuti tramite protesi scultoree che dovevano essere agibili, non rigide. Nel progettare queste protesi abbiamo tenuto conto della mobilità dell’attore. Una volta lavorato sul nero e su queste superfici sculturoree, per poter dare l’effetto di bagno di luce le ho dipinte, ho dipinto a mano i corpi col pennello. Qua sono stata proprio sfacciata, c’è stato un iperutilizzo di materiali teatrali, scultorei, pittorici!
Di cosa erano fatte le protesi?
Di uno speciale materiale plastico, suddiviso in una miriade di piccole superfici snodate. Non era un problema per gli attori indossare un costume così spettacolare, era di una comodità straordinaria, morbido, tanto che il regista li ha invitati a stare su una scenografia con un muro nero con livello di verticalità altissimo che dovevano affrontare e non avrebbero potuto farlo con un costume scomodo o rigido. Non hanno avuto problemi.
Progetti futuri?
Una regia con Marco Sciaccaluga per il Teatro Stabile di Genova in collaborazione con il Napoli Teatro Festival per Il sindaco del rione Sanità di Eduardo De Filippo. Debutta quest’estate, a giugno.