MONTEVEGLIO – Luci da sagra intorno. Luci da festa paesana. Luci piccole che ricordano lucciole ed estati, una fiera, forse una Festa de L’Unità, quando ancora c’erano. Una delle poche volte che Le Ariette cucinano non piatti della tradizione emiliana ma una portata di un altro Paese. Addirittura di un altro continente. Africa settentrionale in teoria, praticamente Francia nella realtà. Un lungo snocciolato doppio binario questo “Io, il couscous e Albert Camus” tra la giovinezza di Stefano Pasquini, diciassettenne andato a trovare il suo primo amore francese d’origini spagnole in Normandia, e “Lo Straniero”. E le tante, altre, impreviste coincidenze, gli incroci, le casualità. La nostalgia assale e fermarla è un lavoro titanico votato allo scoramento, alla sconfitta.
Un viaggio a ritroso dentro ciò che era, lui ragazzo negli anni ’70 in un paese sconosciuto con uno lingua poco masticata, un amore al quale non sapeva dare un senso ed un nome preciso. Tutte prime volte. Ed un ritrovarsi dentro quelle parole, come se quel libro fosse il suo diario, come se quelle parole le avesse scritte lui anni prima e adesso le rileggesse. Intanto il pubblico, seduti ed appollaiati su tavolini che tanto ricordano i bar magrebini dediti allo sguardo dello struscio della piazza, sbuccia patate, carote, cipolle, taglia zucchine. Le grandi pentole fumano con dentro i minuscoli granelli gialli: “Il taglio delle verdure, movimento atletico o movimento dell’anima”.
Ancora la cucina non come alimentazione ma memoria, tradizione ed anche il suo tradimento. Il teatro dei sensi, i suoi odori e colori. Un passaggio allo Stefano non ancora maggiorenne, un assaggio allo Stefano di oggi over cinquanta, un morso alle spiagge algerine di Camus, romanzo regalatogli dal primo amore. E s’avvia una processione, con cartelli appesi al collo e stampate le parole del romanzo, una via crucis a percorrere il vortice delle parole d’inchiostro ed a ritrovarci il passato vissuto del “nostro” ragazzo alla scoperta del mondo.
Una tinozza per nuotarci dentro. Un salto alla ricetta, un aggancio di politica, una scorribanda in quell’amore adolescenziale, un parallelo continuo tra Lo Straniero ed il suo sentirsi straniero, tra Stefano e Albert, che mentre il primo nasceva l’altro moriva in un passaggio simbolico di consegne, ed entrambi giocavano come portieri, estremi difensori si direbbe oggi.
Un lavoro questo, abbreviamolo “Camus”, che ha in sé molta più “regia” simbolista, immagini a percuotere l’immaginario, a riverberare eco che sonnecchiavano nel sottofondo. E quella sequenza di tiri e di parate a terra, con una maglia del colore della notte come il “Ragno Nero” Yashin, mitico portiere dell’Urss, recitando e correndo, alzando il volume ed ancora rotolandosi sulla vita, sugli eventi, sugli accadimenti e farli propri, braccarli, abbracciarli, stringerli, prenderli, senza farseli sfuggire, e un altro tiro ancora cercando di parare i colpi, mettendoci corpo e faccia senza la paura del proiettile scagliato, della meteora, della cometa che saetta. E’ che “il tempo non passa, siamo noi che passiamo”.
“Io, il couscous e Albert Camus”, Teatro delle Ariette. Di e con: Paola Berselli e Stefano Pasquini. E con: Maurizio Ferraresi. Regia: Stefano Pasquini. Visto al Teatro delle Ariette, Deposito degli attrezzi, il 23 marzo 2014.