SESTO FIORENTINO – “Cessando di essere pazzo, diventò stupido”. (Marcel Proust)
“In questo mondo devi essere matto. Se no impazzisci”. (Leopold Fechtner)
“In un’epoca di pazzia, credersi immuni dalla pazzia è una forma di pazzia”. (Saul Bellow)
“Se un uomo fosse tanto furbo da poter nascondere di essere pazzo, potrebbe far impazzire tutto il mondo”. (Søren Kierkegaard)
“Si nasce tutti pazzi. Alcuni lo restano”. (Samuel Beckett)
Se, almeno nelle fasi iniziali, si ha la sensazione di essere catapultati in un contemporaneo “Enrico IV” pirandelliano, a mano a mano che la trama si dipana, che la tela si tesse e si colora di chiaroscuri dove bene e male stanno avvinghiati compenetrandosi, questo “El ingenioso Hidalgo”, con il quale l’autore Francesco Mancini (scuola Teatro della Limonaia, passaggi anche con Ugo Chiti) ha vinto il Premio Sipario ’12, si rileva capace di infiniti spunti, ora politici, adesso esistenziali, anche economici, il tutto giocato sul doppio binario della realtà sfaccettata e della follia lucida e controllata. Tutto è bifronte, come Giano, e la verità, ora creduta appartenente ad un personaggio, si sposta, per osmosi, al secondo in un continuo e vicendevole scambio che rincuora drammaturgicamente, mette sull’attenti e sulle spine lo spettatore (cosa sempre buona e giusta), scardina le certezze apprese.
Ad ogni scena, con il mettersi in moto del nuovo quadro altri ingranaggi cominciano il lento (com)muoversi scatenando dinamiche inespresse, in divenire, che prendono corpo facilmente in un pentagramma di sentimenti e situazioni mutevoli come le nuvole nel cielo d’Irlanda. Mancini è qui accompagnato da Roberto Gioffrè, entrambi protagonisti qualche anno fa del delicato “Polvere di pelle”; conoscono, e si conoscono, perfettamente movimenti e tempi dell’altro, ben riuscendo nell’alchimia teatrale di una scrittura dai rimandi beckettiani. Gioffrè ha impatto, forza, sguardo diretto a scovare, Mancini ha quell’ironia tragica, quel sorriso grave e grosso che preannuncia sempre tempesta e disfatta.
Un imprenditore che rifiuta il suo ruolo, certo, preciso, sicuro, stabile, professionale, e si getta nelle braccia dello sconfittismo, nel massimo antieroe della letteratura, tutto l’opposto di ciò che era stato fino a quel momento. Accanto a lui il fido scudiero, scettico come lo fu Sancho, ma disposto comunque, per pigrizia mentale e mancanza d’alternative, a seguirlo in capo al mondo. Ma, si sa, il leone, anche se mansueto e addomesticato, per sua natura è atto e programmato ad azzannare. L’aiutante pensa che il padrone sia in fase “demenza senile” ed ha preso accordi con la moglie dell’industriale per eliminarlo. Ma chi è più folle, il matto o chi gli sta vicino? Nel continuo passaggio di surrealtà e finzione, di fantasia e poesia, Sancho/Sandro cede le redini, molla gli ormeggi da una vita che non lo ha mai soddisfatto, piena di invidie e gelosie e rancori, ritenendo che l’isola che non c’è farcita di galoppate inventate lottando contro mostri alati sia di gran lunga più affascinante ed avventuriera della miseria tangibile vista fin lì.
Il Padrone, che, si sa, cadrà sempre in piedi come ogni leader, ha bisogno del meschino e ingenuo segretario per portare a compimento il suo lucido piano-via di fuga. La povera gente crede sempre nei sogni, crede soprattutto se sono altissimi ed impossibili, si fida e si affida all’inanto, ha necessità delle nuvole, vuole i millantatori, gli imbonitori, i prestigiatori, i maghi dal sorriso rassicurante. Gli ultimi hanno bisogno dei primi, per sentirsi inadeguati e così continuare a desiderare qualcuno che, al loro posto, prenda decisioni e scelte e si accolli responsabilità. Se Sancho è Isacco sull’altare del sacrificio, in questa strage degli Innocenti la mano e la scure di Abramo non si fermerà.
“El ingenioso Hidalgo” di Francesco Mancini, con Francesco Mancini e Roberto Gioffrè. Regia di Pier Paolo Pacini. Produzione: Atto Due. Visto al Laboratorio Nove, Sesto Fiorentino, il 31 marzo 2014.