FIRENZE – Si sente il Salento abbagliante di Mario Perrotta e i rintocchi di Fabrizio Saccomanno in “Iancu”, l’arido intorno dei racconti di Saverio la Ruina, ma anche la terrenità ilare di Alessandro Benvenuti. Oscar De Summa canta il suo paese in questo “Diario di provincia” (il suo primo spettacolo, ha superato le 600 repliche), il suo mondo, la sua famiglia, le proprie origini, il dna, il sangue ancestrale e viscerale. E’ un canto di vita che diventa canto funebre per tornare ad essere Alleluia in un’armonia che appassiona, fa gioire, attanaglia, fa sentire tutti i personaggi (reali) di questo piccolo comune dell’entroterra brindisino, Erchie, come vicini, affini, sodali con la nostra, a qualsiasi latitudine, piccola storia comune seppur nelle mille differenze.
Il cunto di De Summa è universale perché l’Italia è una miriade di province e periferie e dormitori e aneddoti e caseggiati e piazze e rotonde e monumenti che solo le mappe e le cartine riescono, con righe e confini tracciati a tavolino, a delineare. Il campanilismo è un modo di vivere, non folklore né tradizione, non usi e costumi ma carne e avi, materia vulcanica che bolle nella pentola dell’esistenza. Si muove come John Travolta ne “La febbre del sabato sera”, intercala con il classico “bellobbello”, sprizza e ci spiazza poeticamente con la metafora dei granelli di sabbia, in questo slang ora pomposo adesso millenario in un mantra che avvicina e respinge, incuriosisce e allontana.
Soprannomi e macchiette, tic e gesti antichi il tutto si mischiano alla voglia di fuga, di andare, il desiderio di vedere che cosa c’è al di là di quello stradone e di quel semaforo che ha funzionato per il tempo di un tramonto venendo, infine, inghiottito, anche lui seppur di ferro ed elettronica, dalle consuetudini millenarie dello status interiore del Sud: l’immobilismo, che se ti muovi sudi, se ti muovi ti notano. Immagini da Spaghetti western mixata con una grandissima dose di sarcasmo, umanità. Un’ascensore per l’Inferno con risalita.
Una lingua gramelot che taglia e spezza come machete ed al tempo stesso è dialetto musicale e culla come il mare anche, o forse grazie, alle cuspidi, agli spigoli, alle lame da insolazione inserite al suo interno come virgole e sottolineature e rafforzativi onomatopeici nelle quali si sente il peso della calura, di questo sole che fa chiudere gli occhi, di tapparelle che ti obbligano a guardare il mondo in 16:9, allungato, oblungo, un po’ slabbrato verso l’esterno, sicuramente schiacciato a terra. Il Paese sembra dire: “Da Erchie non ti liberi, da Erchie puoi uscirne soltanto a piedi in avanti”. Un destino passivamente accettato da tutti. Tutto è fermo, immobile, impassibile, da sempre e così deve restare, senza scossoni, senza cambi di marcia né fraintendimenti.
Storie di personaggi appiattiti su se stessi, nei loro vizi, nelle loro peculiarità che ne hanno fatto schermo e gli altri scherno. Un continuo gioco al massacro dove il rimanere anonimi, il non dare nell’occhio, il non uscire fuori dal coro, la fitta noia latente da lasciarsi scorrere addosso, il perdere tempo nei “giorni fotocopia” è sempre la miglior cosa per combattere questa cosa chiamata vita. E invece Oscar ed i suoi amici hanno trovato il modo di lasciare il paese, quel Sud. Hanno trovato una strada che non era la più semplice né la più facile, che non era far passare i giorni aspettandone la fine. Oscar, ma ci è voluto un “sacrificio-martirio” cristologico, ha preso la propria vita in mano e ne ha fatta opera d’arte.
“Diario di provincia” di e con Oscar De Summa. Visto al Teatro delle Spiagge, Firenze, il 5 aprile 2014.