FIRENZE – Se dieci anni fa il tema del Pinocchio poteva essere l’ideale da affrontare all’interno di un penitenziario, con tutto il suo stuolo e bagaglio di tematiche sullo sbaglio, l’errore, la punizione e la retta via da riconquistare, adesso, il “Pinocchio #2” (praticamente un 2.0) a cura di Elisa Taddei (il 26 e 27 giugno, prenotazione entro il 18, inviando fotocopia del documento al fax 055.7372363), con i detenuti del carcere di Sollicciano, ha preso tutt’altro vigore e linfa diventando un’esplosione ed una declinazione in tanti Pinocchi da una parte, contrapposti ed interfacciati, vicini e distanti, solidali e critici verso un altro gruppo di Geppetti.
Il teatro, e ce lo insegnano le esperienze di questo tipo che più d’ogni altre sono salite alla ribalta nazionale, ad esempio Armando Punzo e la Compagnia della Fortezza di Volterra, serve a migliorare la qualità della vita e della convivenza dietro le sbarre, a portare cultura, rispetto, attenzione, valori e, perché no, anche un mestiere (il detenuto Massimo Bono ha recitato questo inverno al Teatro Everest, ripercorrendo in qualche modo, in piccolo per adesso, l’esperienza di Aniello Arena da Volterra alla pellicola “Reality” di Matteo Garrone).
Questo Pinocchio vuole indagare non più lo sbaglio e la remissione dei peccati o la condanna sociale o ancora il perdono collettivo con il premio finale, ma i rapporti familiari tra padri e figli in un ambiente dove non esiste giudizio e pena da scontare ma più che altro comprensione, ascolto. Tra i Geppetti i detenuti sono prevalentemente di nazionalità italiana e l’età è avanzata (il più anziano è Roberto Mascherini di settantaquattro anni), tra i Pinocchi, al contrario, l’età è decisamente bassa e la provenienza è magrebina o nordafricana, sudamericana, cinese o dell’Est europeo, arrestati soprattutto per reati minori collegati, nel maggior numero dei casi, allo spaccio di sostanze ed alla tossicodipendenza. Distanze di migliaia di chilometri annullate ed azzerate attraverso e grazie al teatro, al palcoscenico.
Per i costumi di scena un importante aiuto è arrivato dal Liceo Artistico di Porta Romana, mentre le maschere (che indossano tutti i personaggi, il Gatto e la Volpe, Mangiafoco ed altri, a differenza di Geppetto e Pinocchio) nascono dal prezioso contributo del laboratorio di Francesco Givone, anima della formazione Zaches. Altro tema sviscerato è quello del diverso: gli anziani si confrontano con i giovani, ognuno dei due gruppi con i problemi di comprensione dell’altrui mondo per non chiudersi, che rimane sempre la cosa più semplice da praticare, per gettare un ponte verso quel mondo sconosciuto, verso ciò che si era e che non ci ricordiamo più di essere stati, verso quell’universo dove, a piccole grandi tappe, arriveremo. Anche la casa circondariale di Sollicciano soffre dell’annoso problema del sovraffollamento con novecento persone stipate in spazi e celle che ne potrebbero, e dovrebbero, contenere la metà, con tutti i dilemmi, di vivibilità, convivenza civile, personali, giudiziari, familiari, da gestire giorno per giorno. Una grande sofferenza che anche il teatro, e lo studio annesso, contribuisce a mitigare.
“L’idea è stata quella di indagare il rapporto tra un padre anziano ed il figlio ormai cresciuto ispirandosi a ‘Gli sdraiati’ di Michele Serra e ad alcuni brani di Ascanio Celestini”, spiega la regista Elisa Taddei. Padre e figlio dietro le stesse sbarre fa venire in mente il film “Nel nome del padre” con Daniel Day Lewis. Da Collodi, un mero pretesto, fino, grazie ad un grande uso dell’improvvisazione e dell’autobiografismo, ad arrivare al raccontarsi, a tornare persone e non numeri o non reati da condannati ed espiare, anche attraverso delle interviste-video, che passeranno nello schermo sul fondale durante la messinscena, ai genitori di alcuni detenuti, parole che ricorderanno i bambini che erano con quella purezza, quell’innocenza che è propria degli uomini prima di sporcarsi con la vita, di macchiarsi con l’esistenza, quando tutto era ancora possibile, ed il destino non era ancora scritto.