Napoli– Il Teatro Festival di Napoli ha talora suscitato perplessità nel voler inseguire, ad ogni costo, le generiche direttrici di un’internazionalizzazione autoreferenziale, perdendo di vista la specificità di una tradizione che nella sua universalità ancestrale potrebbe, invece, trovare il segreto della sua affermazione. Il Dolore sotto chiave in salsa pirandelliana per la regia di Francesco Saponaro, visto la settimana scorsa, sembra invertire molto efficacemente la direzione di marcia testé stigmatizzata, giacché si apre a una prospettiva di lucida riconsiderazione di un retaggio tradizionale stratificato e complesso.
Si è detto in salsa pirandelliana, ma forse avrebbe avuto più senso dire in “odore” di Pirandello, laddove per odore si intende, non metaforicamente, bensì in una misura concretissima, tutta materica, eduardiana in una parola, l’aroma polveroso e stantio di una camera in attesa, per citare la novella dell’agrigentino che, insieme all’altra intitolata I Pensionati della memoria, costituisce il dittico archetipico per questo atto unico eduardiano. Ecco che, in apertura di spettacolo, Giampiero Schiano, nei panni dello «schiattamuorto», armato di un lumino ad olio confida (tramite il testo redatto da Raffaele Galiero durante il laboratorio tenuto dallo stesso Saponaro presso l’Università della Calabria che, insieme a Teatri Uniti e allo stesso Festival napoletano, produce lo spettacolo) al pubblico, con rovesciamento tutto pirandelliano, che, non la morte bensì la vita ha una natura effimera, rivelata appunto dalla morte: « Nun avite capite, v’assicuro. / ‘A vita è n’illusione, è na facciata, / na mano ‘e stucco stesa nfacc’ ‘o muro, / ca cummoglia na senga o na spaccata. / ‘A morta chesto fa: leva ‘a pittura. / Ma… sulo p’ ‘o muorto, ‘a morta fa accussì. / Pe chi rummane ‘a morta fa paura,/ passa ‘a siconda mano e fa suffrì».
«‘A morte, ‘a fernutura, è na credenza», recita, nella chiusa, il testo pronunciato da Schiano che nasconde, dietro l’apparenza pirandelliana, quasi in cauda venenum, la sua sostanza eduardiana. Perché il rapporto Eduardo-Pirandello, in realtà, è una vicenda di travestimenti doppi, multipli, in cui, in ultima istanza, ciò che conta è che l’equivoco pirandelliano sul teatro (come luogo ancipite: destinato alla realizzazione plausibile di una poetica e alla disfatta di un’esistenza) venga ulteriormente equivocato da Eduardo ai fini di una felicità nel darsi in pasto alla rappresentazione.
Proprio da questa consapevolezza, è intelligentemente partito Francesco Saponaro per costruire, con l’autorialità e l’autorevolezza che competono a un regista erudito, l’efferato interno domestico della pièce (aiutato, certo, dall’agghiacciante intuizione scenografica di Fiorito). Non si entra e non si esce di scena impunemente. Occorre passare dall’uscio sghembo della morte.
Ciò che se ne ricava è la sensazione di un passaggio a vuoto, un passaggio nel vuoto del rapporto tra i due fratelli Lucia e Rocco Capasso (interpretati in modo straordinariamente sorvegliato da Luciano Saltarelli en travesti e da Tony Laudadio). La moglie di quest’ultimo, Elena, è morta di una malattia incurabile, mentre Rocco era fuori sede per lavoro e la sorella gli ha celato la tremenda verità per evitargli un dolore lacerante, forse fatale.
Il plot è tutto qui. Eppure, nell’exploit scettico di Rocco dinanzi alla rivelazione della morte di Elena («Ma non è credibile!»), c’è tutto il senso dell’improbabilità di una fine, di una sparizione. Elena non c’è mai stata per Rocco e la sua assenza ha aperto paradossalmente, per quest’ultimo (reso incisivamente dallo sguardo levantino di Laudadio) uno spazio di libertà, di rappresentazione felice di sé oltre le strettoie della vita:
Vuoi vivere nella tua torre d’avorio di bontà e altruismo? E fallo! Ma ci sono gli altri, lo vuoi capire che ci sono gli altri? C’è gente che vive osservando le leggi di una società costituita: o bere o affogare. E allora? Se uno beve per non affogare ha il diritto di pigliarsi il buono e il cattivo di quelle leggi. Voglio dire che se da una parte ingoia bocconi amari, angherie, tranelli, prepotenze che gli congestionano il fegato, dall’altra deve potersi giovare di una contropartita. Dire una cosa e pensarne un’altra è un vantaggio, è una difesa. È come ridere mentre piangi, è come dire: “mi ammazzo” mentre pensi che non lo farai mai. Che significa? Dicevo che l’amavo ancora, povera Elena! Al contrario non ne potevo più di saperla viva, in continua lotta con la morte, inchiodata in un letto. Mi pesava sul cuore come un incubo soffocante. Ho pensato perfino di ucciderla. Anzi, l’ho uccisa.
Di fatto a uccidere Elena, è stata semmai, la stessa Lucia e qui s’impone una riflessione sulla scelta di un attore per quel ruolo femminile. Secondo l’avviso di chi scrive, si tratta della sottolineatura del carattere doppelgänger del personaggio che ha in comune tutto con Rocco e soprattutto l’arresa postura dinanzi alle offese dell’esistenza che diviene aggressiva indifferenza delle esigenze altrui.
C’è nello squallore di questo ambiguo volersi bene, di questo pretestuoso proteggersi, tutta la natura proterva, untuosa, che l’intuizione drammaturgica eduardiana assegna alla famiglia e che Saponaro rielabora evitando intelligentemente ogni enfasi stentorea così come ogni facile concessione al riso.
La scena è il luogo di un trapasso incompiuto i cui unici sfoghi sono le visite dei vicini – nella rielaborazione saponariana ridotti al solo professor Ricciuti (interpretato ancora da Giampiero Schiano) – la preghiera (luogo di uno scontro serrato tra i due fratelli) e il telefono che promette a Rocco la possibilità di un ricongiungimento con la signora Anna (la donna che porta in grembo suo figlio). Sulla conversazione silenziosa di quell’ultima telefonata che nel testo eduardiano recava come il sentore di un possibile lieto fine (favorito dall’informazione sulla destinazione della fuggitiva Anna: «Parte fra mezz’ora con l’aereo») mentre qui esibisce il thrilling disilluso di una sospetta disperazione, si chiude il tempo dell’attesa cinica e vana della mise en scène di Saponaro. Gli usci sepolcrali disegnati da Fiorito sembrano schiudersi di nuovo, ma lo schiattamuorto che fa capolino dalla stanza che custodiva il cadavere di Elena non promette niente di buono e la speranza di chi resta sembra appesa al suo flebile lumicino.
Dolore sotto chiave
di Eduardo De Filippo
con Tony Laudadio, Luciano Saltarelli, Giampiero Schiano, scene e costumi Lino Fiorito, luci Cesare Accetta
suono Daghi Rondanini, assistente alla regia Giovanni Merano, assistente ai costumi Francesca Apostolico
direzione tecnica Lello Becchimanzi
regia Francesco Saponaro
Visto al Teatro San Ferdinando di Napoli il 19 giugno 2014
Produzione Napoli Teatro Festival Italia, Teatri Uniti, Università della Calabria