PISTOIA – Quando si incrociano personalità artistiche di spessore internazionale, grandi maestri come Enrique Vargas, colombiano, regista e ricercatore teatrale, antropologo fondatore del Teatro de los Sentidos -compagnia internazionale residente a Barcellona, ti aspetti il massimo dell’emozione, del coinvolgimento, dello spiazzamento anche, come al teatro di sperimentazione e ricerca si deve chiedere da spettatori-Viaggiatori della vita e delle esperienze teatrali d’eccezione. In Italia abbiamo avuto: Grotowski, Eugenio Barba, Leo de Berardinis e fino allo stesso Vargas visto nel 2005 alla Città del Teatro in El eco della Sombra, straordinario viaggio per visitatore solitario commissionato dalla Fondazione Andersen di Copenaghen.
Ebbene, ciò è accaduto. La promessa è stata mantenuta. Anche questa volta la regia e drammaturgia di Vargas in Piccoli esercizi per il buon morire, lascia segni indelebili sulla pelle di chiunque voglia avventurarsi dentro i labirinti della teatralità dove il rito-mito, inteso come rappresentazione cosmica che passa attraverso il corpo degli officianti-commemoranti si fa gioco, consustanzialità, elaborazione condivisa di un passaggio simbolico ma molto nel segno del sensoriale, secondo la metodologia di lavoro ideata dal colombiano, che al Funaro ha adesso residenza artistica.
E cosa c’è di più umano della mescolanza dei corpi dentro uno spazio scelto per la con-divisione di voci sesso mense funerali notti giorni abiti sogni danze musiche scritture testamenti, magari inscritti in una stanza buia, segreta, la stanza onirica dei sogni delle passioni delle morti dei desideri, che è la stanza dell’elaborazione e della memoria del nostro inconscio, magari anche perché comunque a teatro siamo, è inconscio collettivo?
E così si ri|parte da spettatori-Viaggiatori della vita, dalla fisicità concreta di oltre cinquanta persone, diverse età, nel cortile del Funaro, dove a tutti viene chiesto di lasciare borse occhiali orologi-anche le scarpe e a piedi nudi sotto un bel sole del tardo pomeriggio toscano (qualcuno però si eclissa), viene applicata una benda nera sugli occhi.
Così, ciechi, allacciati affidati mano sulle spalle in fila indiana ma fiduciosi l’uno del passo breve, claudicante dell’altro a cui ci si appoggia, guidati da una attrice fra gli Abitanti (una Beatrice in abito bianco, speziata al profumo di cannella) veniamo introdotti alla sacralità dell’evento.
Due le porte d’ingresso, quella che avvia all’esercizio del “buon morire”, l’altra, che si rivelerà nel finale essere la stessa, perché comune lo spazio interno quale specchio dell’identica proiezione, quella all’esercizio della “buona vita”a cui proprio lo stesso Vargas propone all’ignaro viandante di scegliere fin dal cortile: scegliete la vostra porta, quale preferite? esercitarci per la vita o per la morte? provocazione estrema che già di per sé crea due ali, il pubblico si divide fra un di qua e un altrettanto improbabile di là…
“Siamo le domande che viviamo. Alcuni di noi passano la vita senza esprimerle o darle forma. Altri scelgono la passività del fanatico che si dà risposte indiscutibili. L’esperienza poetica è un ingresso al mondo dei morti che celebrano la vita, o un ingresso al mondo dei vivi che celebrano la morte.“Esercizi” di ricerca dell’altro che sta in ognuno di noi “. Così recita in brochure l’invito, firmato dallo stesso Enrique.
Insomma, la nostra Beatrice dantesca ci accompagna oltre la doppia porta, in un doppio enigmatico, due gruppi alla ricerca di identità frammentate polarizzate ma senza passare, per fortuna, dal fiume dominato da Caronte (già oltrepassato invece in solitaria e con sgomento nell’Eco de la Sombra alla Città del Teatro a Cascina).
Dentro: il dentro, rigorosamente al buio con poche tracce di luce- cosa vediamo delle nostre esistenze? e fino alla fine che succede? Tutto e niente, come nella vita dove vedi e non vedi. Arriva una Madre-di là un Padre (nel senso di un maschile) che ti fa accomodare su una sedia, poi ti lava le mani (buio: rumore dell’acqua nel secchio, sensazioni allo stato puro, la Madre ti pulisce, ti lava, poi ti asciuga, semplici gesti del rassettare il tuo vestito rimesso in ordine- siamo allo status Bambino), e poi lo psicodramma della vita: in una stanza, freudianamente, di là un uomo e una donna fanno l’amore. Poi qualcuno nasce|muore, tutto si consuma o si trasforma. Appare una bara: bisogna tastare-letteralmente, il morto, questo pensiamo che ci sia sotto il lenzuolo bianco. Invece poi la scena cambia: si mangia-rito collettivo (ricorda le ritualità commensali di Eugenio Barba frequentate a Pontedera da Roberto Bacci o il Thierry Salmon che rivisita i greci a Volterra o in Sicilia innamorato com’era delle figure marziali femminili). Sotto (o sopra)il cadavere bisogna vivere, vivere e brindare.
A piccoli gruppi che sempre si scompongono. E allora, dopo ci si alza tutti in piedi e si balla un valzer lento, un classico rito collettivo fra coppie però simbolicamente allacciati ad una maschera che introduce il ballo fra Morte|Vita, accompagnati da una allegra e un po’ triste orchestrina che sembra improvvisata, ma non è.
Nel finale si lasciano scritture individuali ma collettive(cosa lasceresti scritto in occasione della tua morte?) su carte riciclate-in alto sul soffitto una fioca luce lascia intravedere appesi o stesi panni modello camicie, in un ulteriore passaggio drammaturgico dove sotto una torcia da giardino-di nuovo l’oscurità, ciascuno la propria in una apparente confusione dove i gruppi Vita|Morte coi loro“esercizi”- anche se piccoli, si reintegrano ricompongono e scompongono grazie agli Abitanti-Attori aiutanti, scritti delle proprie personali memorie assolutamente individuali. Che forse, qualcuno, intercetterà nel bosco dei segni, delle memorie che da dentro il petto, il cuore, i desideri, che da singole diventeranno collettive inscritte nella storia delle generazioni.
Affidate ancora ad una donna (forse una Parca, non si sa se buona, è in azione con una vecchia macchina da cucire)nell’ultima stanza tappezzata a festoni di cuciture fra foglio e foglio, che le cuce carta su carte in una improbabile tessitura infinita di parole ma possibile mappa- Borges insegna, di percorsi intrecci (qui di nuovo il segno di Vargas e dei sudamericani coi suoi-loro Labirinti).
Così l’ultima stanza, quella prima della porta che ci farà uscire e ricomporre-colla vita? colla morte? è intrecci di carte, carte di carte, mappe di destini in cammino, storie le nostre, quelle di chi è vissuto prima di noi lasciando in eredità a ciascuno di noi il proprio desiderio, con la propria provvisorietà e solitudine, a raccontare il racconto delle loro e nostre vite.
Regia e drammaturgia Enrique Vargas
Coordinamento artistico Patrizia Menichelli
Disegno dello spazio Gabriella Salvaterra
Direzione musicale Stephane Laidet
Paesaggio olfattivo Nelson Jara e Giovanna pezzullo
Costumi e maschere Patrizia Menichelli
Visto al Funaro, Pistoia il 28 Giugno 2014