SAN LAZZARO (BO) – “Perché a vent’anni tutto è ancora intero, perché a vent’anni è tutto ‘chi lo sa’” (Francesco Guccini, “Eskimo”)
C’è chi usa parole come “comunità”, “integrazione”, “territorio” ed una volta che ti aggiri in loco se ne sente e capisce e percepisce il vuoto contenutistico, la bella confezione, la scatola preparata al consumo ma si annusa che dentro ben poco si agita, si innesca realmente. Molte volte il teatro, chi fa teatro, ha bisogno di queste parole per giustificare la propria attività ad un’amministrazione, spesso comunque indifferente alla faccenda, per sentirsi e soprattutto mostrare di essere utili, di avere un senso, un ruolo in quel determinato spaccato di società. Il contrario di quello che avviene al Teatro dell’Argine che è connesso, collegato a doppio filo, intrecciato al tessuto sociale di San Lazzaro di Savena fin quasi a dire che non ci sarebbe l’uno senza l’altro, sicuramente il comune dell’hinterland bolognese sarebbe diverso, osiamo dire peggiore, senza l’esperienza di questi venti anni della compagnia che ha sede all’ITC. Hanno rivoluzionato, smontato una comunità a metà anni novanta, ne hanno assaporato le differenze, gli attriti, hanno messo tutto insieme, frullando, aspettando, senza tutte quelle parole buoniste che abitano, per il politicamente corretto che ci attanaglia, situazioni di incroci tra nativi e immigrati, tra nuovi e vecchi italiani.
Da una situazione di possibile tensione, come tutt’oggi avviene in mille territori sparsi nel Belpaese, ad una grande bellezza, ad un’atmosfera di condivisione e vicinanza e stavolta non a parole ma nei fatti, negli esempi, nella normalità di gesti, momenti. Il razzismo si combatte così, senza striscioni e cortei ma con, giorno per giorno, faticosamente, stare sulla stessa barca, dalla stessa parte, senza paternalismi, con umiltà da entrambe le parti, perché poi, si capisce dopo nel tempo, la parte è una sola. In questo grande viaggio, che sa di percorso, di vita, di cammino, di pellegrinaggio reale e metaforico, che sa di avventura e Odissea, di persone venute da lontano oppure di mille passi dentro di noi a scavare, a scalfire le sovrastrutture, a togliere la polvere del creduto a priori, come tanti Dante, ovattati da cuffie che, con suoni ma soprattutto parole antiche, ci conducono, dopo un vialetto-budello, nella grande apertura della vita dove puoi trovare qualsiasi volto, puoi provare qualsiasi esperienza. Lì, davanti all’infinito sei solo e, cosa meravigliosa quanto terribile, puoi scegliere. Un gregge di pecore che improvvisamente ha un recinto vasto quanto il mondo per poter decidere cosa seguire, chi e cosa vedere, cosa sentire ed ascoltare.
Trentasei piccoli palchi, altezza mezzo metro, quattro metri per quattro, danno, in questo grande prato verde celentaniano che sa di campetto ed oratorio da Mazzola e Rivera, il senso della società che lì intorno vive e lavora, vive e partecipa, vive e lotta, vive e ride, vive e fatica, vive e impara l’emiliano e mangia tortellini e ragù indifferentemente da quale Dio preghi. Il pubblico vaga da una visione all’altra ed il dispositivo che abbiamo in dotazione si connette ogni volta alla postazione prescelta e fa partire parole diverse per ogni situazione in un collegamento veloce tra occhi ed orecchie fermandosi ad osservare questi oltre cento non attori coadiuvati da una ventina (come gli anni dell’Argine; qui niente è casuale) di attori professionisti, tra quelli storici, Micaela Casalboni, Ida Strizzi e Lorenzo Ansaloni per citarne alcuni, o i tanti bravi giovani formatisi negli anni nei loro laboratori, per una grande festa popolare colma di commozione, sentimento, palpitazione.
L’impianto strutturale del tutto mi ha ricordato il gigantesco spettacolo che, per la regia di Roberto Andò, fu messo in piedi nel 2008 all’interno della prima edizione del Napoli Italia Festival alla Darsena della Marina Militare con Anna Bonaiuto e Vincenzo Pirrotta, con tanti piccoli palchi che riassumevano i tanti e diversi aspetti della vita di Napoli del dopoguerra. Se sotto il Vesuvio si sperperarono svariate decine di migliaia di euro per una sola replica (seppur bellissima e d’impatto) qui, ancora una volta, l’Argine ha dimostrato che, con professionalità e fatica, si possono raggiungere alti risultati e traguardi con pochi mezzi ma con tenacia, con le idee e la competenza.
L’itinerario personale ci porta davanti ad un bambino che palleggia come a ragazzi che giocano a biliardino oppure alle operaie licenziate dalla Perla o alle donne nordafricane che, sedute su tappeti orientali, preparano il tè. In questi stralci e spaccati c’è la vita che tutti i giorni si sciorina al di là del teatro e della rappresentazione. Tante installazioni umane da assaporare, soffermarsi oppure sbirciare: il biciclettaio o i giocatori di cricket, persone in sedia a rotelle o scultori, i guardia caccia o i ballerini. I colori e le facce ci mostrano, come in un mercato delle spezie, tutti i vari sapori, odori e aromi della vita che ad ogni morso regala un gusto differente. I cittadini, le associazioni, i gruppi, mostrandosi hanno messo in pratica l’accoglienza reciproca, la fiducia in un progetto collettivo originale che rimarrà nella memoria di chi l’ha fatto e di chi lo ha visto. Nel mentre ci scivolano addosso parole in italiano, in inglese ed in arabo, che non sono semplici traduzioni ma passaggi e mani tese e ponti paritari e con uguale rispetto. Un nuovo alfabeto, dell’anima, dei sentimenti, è stato gettato come basi e fondamenta sopra le quali da venti anni l’Argine sta costruendo e lavorando ben consci che sarà un lavoro duro e senza fine. E che se molli la presa il mondo fa il gambero. E che la soluzione si trova cercandola non con le frasi fatte e gli slogan da spot.