RADICONDOLI – Qualche giorno fa ad un convegno organizzato a Rieti a tema la critica on line e la critica cartacea è saltato fuori il tema del passaggio di consegne, l’eredità giornalistica e critica dei colleghi senior verso le nuove generazioni. Inevitabile il pensiero al “Premio Radicondoli”, o meglio “Nico Garrone” rivolto, uno dei pochi se non l’unico, alla giovane critica teatrale. Premio, nato nel 2010, che è diventato biennale, crediamo anticamera alla sua scomparsa. Scomparsa perché non ha lasciato il segno, perché non si è fatto carico appunto dei trentenni che si sono affacciati in questo mondo, perché non ha avuto la forza e non si è preso la responsabilità di censire, certificare un movimento spontaneo e dal basso (i vari blog nati in questi anni o al movimento di Rete Critica, ed altre esperienze), non ha avuto la voglia ed il desiderio di andare a fondo nelle dinamiche che si muovono all’interno del mare magnum della critica (quasi esclusivamente in Italia oggi si fa sul web).
Ma andiamo per ordine. Il Premio Radicondoli si rivolge a due figure: i Maestri ed i critici. Tralasciando la prima sezione (che quest’anno vede vincitore Dario Marconcini, e nelle scorse edizioni Alessandro Benvenuti, Fabio Biondi, Cesar Brie, Chiara Guidi e Ugo Chiti), incentriamo il nostro ragionamento sulla seconda categoria: la bistrattata critica, ancora più vilipesa se “giovane”. La giuria, formata da Anna Giannelli, Sandro Avanzo, Rossella Battisti, Enrico Marcotti e Valeria Ottolenghi, punta, o dovrebbe puntare, fin dall’inizio, così ci è stato raccontato negli anni, su due particolari focus nodali: l’anagrafe (discrezionale) e la curiosità, ricordando appunto il grande lavoro sul campo di Nico Garrone, nell’andare a scovare, recensire, supportare gruppi e compagnie disseminate nella nostra geografia, rendere partecipi e visibili processi e progetti, portare alla luce esperienze altrimenti laterali o dimenticate: “… lavorando anche in situazioni difficili, periferiche, restituire attraverso il racconto, l’analisi, con sensibilità e competenza, i caratteri, il senso del lavoro sulla scena”.
Il tutto però, e sta qui il centro del discorso, ha una patina di democratizzazione. Sono, o dovrebbero essere, le stesse compagnie e attori e registi, ad identificare il loro (hanno tre nomi a disposizione) critico di riferimento, quello/i che negli anni li ha seguiti in un percorso, con il quale hanno avviato un’idea comune di teatro, con il quale si sono confrontati. Per far questo appunto è necessario essere presenti, andare, vedere, viaggiare, farsi i festival (come faceva Nico, sandali e taccuino e treni regionali) e non rimanere ancorati al proprio territorio. Quindi, riassumendo, le compagnie inviano per email le loro scelte, dopodiché i nomi, sia che un professionista abbia ottenuto un solo voto sia che abbiano raggranellato cento preferenze, entrano nel calderone, nella grande ammucchiata dei papabili (e quindi si annulla il dato numerico precedente) ai quali vengono richieste alcune recensioni sulle quali la giuria esprime le proprie valutazioni di merito.
Il che vorrebbe dire che se non chiamano un critico per richiedergli la documentazione di pezzi giornalistici significa che nessuna compagnia italiana lo ha segnalato. Ipotesi alquanto improbabile visto che di critica in Italia se ne occupano alcune decine di persone. Innanzitutto, per evitare dietrologie e cattivi pensieri, basterebbe, come forma legittima di trasparenza, pulizia e chiarezza, pubblicare on line quali compagnie hanno votato e chi hanno votato e quante preferenze hanno ottenuto i vari critici in lizza. Si taglierebbe la testa al toro alle polemiche che ogni anno da più parti si avanzano sui criteri di scelta che stanno alla base del Premio. Se fosse eliminata questa prima scrematura, questo primo filtro già i dubbi scemerebbero.
Ritorniamo al passaggio di consegne. Con il Premio Radicondoli sembra proprio che una parte della vecchia critica (vecchia come anagrafe professionale, senza riscontrare alcuna negatività nell’aggettivo) non abbia a cuore le sorti della “giovane critica” se ogni anno la elude e la salta, preferendo prendere altre strade, certo più comode. Da qualche anno Andrea Porcheddu, ad esempio (ma anche Massimo Marino conduce laboratori di scrittura e di critica con grande seguito e grande spinta didattica), ha identificato una sorta di nucleo con “la meglio gioventù” della critica (on line va da sé) teatrale italiana.
Ci sono dentro ragazzi che ormai si sono fatti le ossa in esperienze come Il Tamburo di Kattrin di Venezia, Teatro & Critica di Roma, lo stesso Rumor(s)cena, Altre Velocità in Emilia Romagna ed altri blog e siti sparsi che Rete Critica (fondata dai citati Marino, Porcheddu e Oliviero Ponte di Pino e Annamaria Monteverdi) ha censito, organizzato, strutturato con una serie di incontri, convegni e con l’istituzionalizzazione di un premio autonomo. Il Premio Nico Garrone aveva la possibilità, e negli intenti anche la volontà e la spinta, per certificare un lavoro sul campo e dare spazio a chi conduce la propria battaglia quotidiana nel campo culturale-teatrale.
A cosa serve un premio alla critica teatrale se non valorizza esperienze come propulsione per il futuro e a far emergere energie vitali per il continuo della professione divenuta sempre più complicata? A cosa serve un premio che non si guarda intorno, che non vede il presente ma che è ancorato a vecchi sistemi e dinamiche? Il futuro è ora e non accorgersene è un peccato da una parte ed un danno dall’altro. Volontario e consapevole, aggiungo. Perché i “giovani”, e non i ventenni appena usciti dalle università, e non i cinquantenni ormai affermati (quest’anno ha vinto Maura Sesia, collaboratrice di Repubblica Torino), premono, le poltrone vacillano. Molti premi servono più a chi li indice che a chi li riceve.