Teatrorecensione — 10/08/2014 at 21:39

La Compagnia Scimone Sframeli nello “spazio critico” degli studenti del DAMS di Messina

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Per celebrare il ventennale della Compagnia Scimone Sframeli e il debutto taorminese di Nunzio, nel 1994, la compagnia ha indetto una rassegna teatrale proponendo i sette spettacoli realizzati fin qui, dal 18 al 31 luglio 2014 nella location del Palacongressi di Taormina. Tale occasione ha incoraggiato la presenza dei giovani studenti del laboratorio di critica del DAMS dell’Università di Messina, che afferisce al Dipartimento di Scienze Cognitive, della Formazione e degli Studi Culturali. Gli studenti ne hanno approfittato per vedere per la prima volta, per ragioni evidentemente anagrafiche, le opere di questi attori e drammaturghi. Partecipatissima è stata la giornata del 31 luglio che ha visto il coinvolgimento di direttori di festival teatrali, artisti, critici, studiosi e storici del teatro. L’evento è stato realizzato in collaborazione con Taormina Arte, Universiteatrali, Latitudini ed ERSU Messina.

Il 31 luglio è andato in scena l’ultimo lavoro scritto da Spiro Scimone, con la regia di Francesco Sframeli e con gli attori Salvatore Arena/Sagrestano, Gianluca Cesale/Papà, oltre ai già citati Scimone/Figlio e Sframeli/Don Carlo. Lo spettacolo prodotto con il contributo di Festival delle Colline Torinesi e Théâtre Garonne  Toulouse si è aggiudicato il Premio Ubu 2012 per la scenografia realizzata da Lino Fiorito.

Giù è uno spettacolo che non lascia scampo a buonismi, lo spettatore rimane avvinghiato e intrappolato nell’aria irrespirabile dell’enorme cesso che campeggia sulla scena. Un padre e un figlio inneggiano alla speranza di una salvezza? Sacrificano se stessi lasciando nell’infera fogna un posto per respirare a qualcun altro; ma quassù dove vige il nostro mondo sottosopra, rimane la cronaca di un’attualità che coinvolge tanti coevi disgraziati. L’assenza di donne sulla scena, sembrerebbe compensata dall’utero-ventre-vaso sanitario, fittizio simulacro del femminile, se la donna, anzi una madre che è anche puttana, non venisse evocata da un racconto parallelo che accade spalancando una finestra sulla scena, da cui viene fuori un intenso Mamma – quello di Beniamino Gigli – cantato dal vivo e unica musica presente. Non c’è posto per la sessualità, ma per abusi su minori consumati in una sagrestia: denuncia consueta e ormai facile ammiccare contro le ingiustizie tout court. Ottimamente sgraziata l’interpretazione di Sframeli, si allontana dagli altri interpreti, in allenamento attoriale mediante il consueto ritmo dato dal susseguirsi dei dialoghi e di azioni iterate e surreali. Anche questo lavoro rende riconoscibile la poetica della compagnia, che avrà certo subito retaggi vari ma che si conferma uguale a se stessa, pertanto unica nel dare voce agli emarginati.

Giù
Giù

Abbiamo voluto presentare i giovani critici del DAMS di Messina offrendo loro lo “spazio critico” che segue e ospitando pertanto le recensioni delle studentesse Daniela Milici, Antonia Serra e Luisa Tabbì, presentate nell’ordine cronologico delle opere: Bar datato 1997, Il cortile realizzato nel 2003 e Giù del 2012.

 

Bar: la crudele analisi dell’essere

Di Luisa Tabbì

È in occasione del ventennale del binomio artistico Scimone-Sframeli che al Palacongressi di Taormina, luogo d’esordio, si ha l’occasione di rivedere i sette spettacoli che costituiscono il corpus drammaturgico della compagnia: Nunzio, Bar, La festa, Il cortile, La busta, Pali e Giù.Una retrospettiva realizzata ad opera di Taormina Arte, ERSU Messina, Universiteatrali e Latitudini. Il rendez-vous attore-spettatore prende corpo in una melodia tutta messinese. Bar, luogo di congiunzione tra due personalità lontane, unite dalla tragicità del sopravvivere. Petru/Spiro Scimone, disoccupato incline alla menzogna, e Nino/ Francesco Sframeli un barista, umile sognatore, trascorrono passivamente la loro esistenza fatta di ingiustizie e prevaricazioni, nel retro di un modesto bar: chi tra le fin troppo apprensive braccia della madre, chi vendendo la pochezza dei propri averi nella speranza di una promessa mai mantenuta. Sono loro, per una volta, a voler cambiare le carte in tavola, a voler giocare la mano vincente. Con il pretesto di una banale partita a poker prende corpo un piano che non ottiene il successo sperato. Ancora una volta la dura legge del più forte calpesta la dignità di chi ha poco con cui difendersi. Nino che rompendo i bicchieri servendo da bere durante la partita doveva guardare le carte dei poco onesti compagni di gioco di Petru, finisce per capire la complicità ai danni di questo che, insieme a lui, esce sconfitto da questo ennesimo tentativo di rivalsa.

E ancora una volta sono loro, Nino e Petru a rimetterci: soli, umiliati, annientati.

La struttura del testo drammaturgico riconduce a una teoria del divenire ad andamento circolare che, richiudendosi su sé stessa, non lascia spazio al lieto fine. Le frasi iniziali ritornano, volte a ristabilire una quietedopounatempesta mai realmente arrivata. È troppo frenetica la vita e i suoi improbabili e crudeli risvolti per potersi concedere il lusso di credere, anche solo per un secondo, di poter uscire vincitori da sé stessi, da quello a cui, per natura della condizione umana, siamo inevitabilmente destinati. Caustiche a tratti le parole di Petru e Nino, immersi nella vorticosa euritmia della vita.

Come sempre nel teatro di Scimone e Sframeli la volontà preponderante è quella di denunciare le difficoltà dell’esprimersi, tipiche delle minoranze, in un contesto critico, di fronte alla potenza schiacciante di una mannaia impietosa che intima la rassegnazione. Il rapporto con l’altro, scheletro fondante della pièce, si evolve come analogia dell’essere, esplorando la dimensione umana in tutta la sua immutabile crudeltà.

 

Bar
Bar

Quando l’assurdo diventa realtà

Di Antonia Serra

Una moto distrutta, mobili arrugginiti, sacchi pieni di spazzatura, è questo lo scenario che si presenta davanti ai nostri occhi, al palazzo dei Congressi di Taormina il 23 luglio 2014, in occasione dell’anniversario dei vent’anni della compagnia dei messinesi Scimone e Sframeli, che portano in scena il loro quarto spettacolo, dal titolo Il cortile (2003). Un quadro devastante, quasi apocalittico vede protagonisti tre derelitti della società Peppe/ Francesco Sframeli, Tano/ Spiro Scimone e Uno/Gianluca Cesale. Ci troviamo in una discarica o per meglio dire in un cortile-discarica, un connubio perfetto, se pensiamo che il cortile è da sempre, sin da quando si è bambini, il luogo per eccellenza del gioco, dove attraverso la creatività, le idee, ci si può esprimere liberamente, a differenza della discarica, luogo in cui si rischia di essere contaminati da rifiuti, sporcizia, squallore. Non si riesce a capire bene quale sia il legame che intercorre tra i vari personaggi, ma le attenzioni, le premure, le cure di Tano verso Peppe ricordano senza alcun dubbio i due amici di Nunzio, l’opera prima di Spiro Scimone.

Il testo è ricco di simboli: il bastone nelle mani di Peppe, come fosse uno scettro, che dà il potere di governare, decidere e dare ordini; il topo tanto odiato, perché divora le loro carni ma al contempo invidiato, perché è il solo a mangiare; le bastonate che i nostri personaggi ricevono senza neppure sapere il perché, ma convinti che se lo fanno un reale motivo ci sarà – “noi non lo sappiamo ma se ci hanno preso a bastonate un motivo c’è” ̶ un sacco che contiene ogni genere di prima necessità, svuotandolo lascerà spazio al buio, al nulla; le dentiere, che la gente butta perché si è stancata di avere i denti senza però avere di che sfamarsi. Tutto questo è metafora di una società sempre più indifferente alle grida di aiuto, sempre più egoista, preoccupata solo della propria sopravvivenza piuttosto che di quella altrui. A rompere un po’ l’atmosfera di gioco tra Tano e Peppe è una sorta di ritorno alla realtà portata dal terzo personaggio Uno, parlando di una moglie e di una madre che si sacrificano per il bene della famiglia, risparmiando quanto più possibile e della perdita di un lavoro, che getta i personaggi nell’inutilità più totale.

È un personaggio quello di Uno, alquanto singolare potremmo definirlo “l’uomo verme”, un uomo a cui hanno tolto tutto, che consapevole di come va il mondo fa qualunque cosa è in suo potere per assomigliare ad un verme, tant’è che non cammina più ma striscia, ma per essere a tutti gli effetti un vero verme è necessario che qualcuno gli schiacci la testa, cosa che purtroppo né Tano né Peppe sono in grado di fare, perché non hanno le scarpe adatte. Dei tre Uno è il personaggio più debole, vive sulle spalle di Tano e Peppe, ormai non ha più nulla da fare “nemmeno pena”, perché “c’è sempre qualcuno che fa più pena di lui”. Sono questi dei personaggi, che non hanno più la cognizione del tempo ma, con ancora tanta dignità e voglia di vivere, in attesa di tempi migliori, vivono ormai la quotidianità che si ripete all’infinito.

Nonostante la società li abbia relegati al confine, in un luogo dimenticato da Dio, quasi come per nascondere le sue stesse brutture, Peppe, Tano e Uno trovano nel cortile, luogo dove tutto è possibile persino essere se stessi, il modo per poter dire, pensare, parlare insomma esprimersi, in una discarica o meglio, in una società che non lo permette più, che cerca al contrario di togliere loro tutto, ma c’è una cosa che mai nessuno riuscirà a portargli via, vale a dire la voglia di sognare. Sta proprio qui il loro segreto, essere un po’ uomini e un po’ bambini, solo cosi possono contrapporsi e sopravvivere ad una società che invece tende a sfruttare, divorare, consumare per poi gettare a proprio piacimento nel dimenticatoio, tutto e tutti senza alcuna distinzione. Con una scenografia surreale e un teatro a tratti dell’assurdo a tratti del sociale, ancora una volta Spiro Scimone, ha saputo dar voce a problemi reali che ogni giorno ci affliggono, nel luogo che più di tutti rende possibile l’impossibile, vale a dire il teatro.

 

Giù, e il coraggio di vivere … su

Di Daniela Milici

È andato in scena il 31 luglio 2014 lo spettacolo Giù della Compagnia Scimone Sframeli per la celebrazione dei venti anni dalla nascita della compagnia al palazzo dei congressi di Taormina. Sulla scena si sono succeduti Spiro Scimone, Francesco Sframeli, Gianluca Cesale e Salvatore Arena. In un’unica cornice si sono trattati temi davvero importanti dalla pedofilia che violenta l’infanzia a causa di un malato eros sacerdotale e clericale, alla mortifera voragine di una esistenza negata che raggiunge il coraggio, che solo si ha quando si diventa adulti. La mancanza del coraggio di denunciare al mondo la verità, è quella fonte di povertà esistenziale che durante lo spettacolo viene sciorinata come omertà; una omertà che attanaglia tanto da venire ammessa da un prete che ne denuncia un altro, anche se con fatica.

Da sottolineare è la scenografia che pone l’attenzione su un grosso gabinetto da cui i personaggi saltano fuori in uno scambio emotivo che rompe il silenzio dell’omertà e il tacito quieto vivere. Una visione questa che è specchio del mondo per tutti coloro che sono rimasti giù, e non trovano quel coraggio che è la forza del mondo, la passione per l’esistenza.

La piéce ha inizio con ritmi lenti e a volte sincopati e reca un non sense nel dialogo-monologo di Spiro Scimone, un turlupinare da bambino pi che da uomo, a cui risponde un padre che utilizza un modus vivendi tipico di chi ha poco da dire, ma molto da ascoltare. Vi è una sorta di inversione in cui il padre diventa figlio, e il figlio diviene uomo; in ciò agisce in profondità il linguaggio attraverso una sintesi, che ristabilisce il tutto nel niente, come se vi fosse un ordine precostituito, il tutto rimane al giusto posto per sollecitare l’esperienza del vivere nella emotività tipica di un bambino.

Appare un grembo materno che è merito, frutto anche di un padre e dà significato anche a un’apertura alla vita, che è simboleggiata dall’affaccio a questa del padre che apre la finestra da dove parte l’attacco della canzone che comincia con “Mamma son tanto felice”, una beata realtà, rivissuta e corretta. Una realtà fatta di canoni e tabù: il tabù dell’amore a volte omosessuale, a volte eterosessuale, ma comunque un sentimento umano e reale che va vissuto. È parte della narrazione emotiva la storia in crescendo di Ugo che è costretto a vivere sotto un ponte e a cantare sotto il ponte, per non perdere o vendere la dignità. La dignità dell’essere uomo in quanto essere umano, generatore di vita e d’esistenza rimanda anche quindi a ciò che di mefistofelico c’è nell’essere umano, il diabolico, la cattiveria che infima ci attanaglia.

Lo spettacolo è vincitore del premio UBU 2012 come miglior scenografia.

 

Il cortile
Il cortile

Su per giù io preferisco il cesso

Di Antonia Serra

 Una società che non lascia scampo: è questa la filosofia dei protagonisti di Giù, ultimo lavoro scritto da Spiro Scimone con la regia di Francesco Sframeli, andato in scena per la prima volta in Sicilia il 31 luglio 2014 al Palazzo dei Congressi di Taormina, in conclusione dell’iniziativa “L’universo teatrale di Scimone Sframeli” per i vent’anni di carriera della compagnia, che ha visto portare in scena sera dopo sera, spettacolo dopo spettacolo tutto il percorso teatrale dei due. Giù è un titolo alquanto singolare se si pensa che al centro di tutta la pièce vi è un enorme cesso, da cui via via spuntano i vari personaggi.

 Ci troviamo di fronte ad un bagno a dir poco surreale, sulla scena solo un padre/Gianluca Cesale impegnato a radersi la barba, rituale mattutino che ad un tratto viene interrotto dall’arrivo del figlio/Spiro Scimone, figlio che sbuca appunto dal gigantesco cesso, gettando addosso al padre tutte le proprie frustrazioni, incolpandolo di tutti gli errori commessi dai padri che inevitabilmente ricadono sui figli, i quali sempre più si vedono negati un futuro privo di compromessi e di opportunità, errori di cui ormai il mondo è schiavo, si tratta di un mondo malato dominato ormai dalle ingiustizie, dalle angherie. Ma è proprio attraverso il cesso, che personaggi come Don Carlo/ Francesco Sframeli, prete che ha scelto di stare “giù”, perché stanco di stare comodo o come il sagrestano/ Salvatore Arena, trovano il coraggio di ribellarsi dopo anni di silenzi e di soprusi, denunciando lo squallore di una società che ci vuole sempre e comunque con la testa bassa o il “povero cristo di Ugo”, che preferisce cantare sotto un ponte, come chi aspetti il momento giusto per venire fuori, per prendere aria e poter dire finalmente la sua, in una società che vuole loro tappare la bocca e il respiro.

 Dunque il cesso, quasi come un grande trono dà il potere a chiunque ci finisca dentro, di parlare, di esprimersi; un potere che dovrebbe essere un diritto ma che la società odierna ci ha tolto: il cesso restituisce. Esso restituisce altruismo, solidarietà ma soprattutto dignità, diventa un’ancora di salvezza, un rifugio, un luogo di denuncia ma soprattutto un luogo in cui essere se stessi, in cui trovare il proprio spazio, senza scendere a compromessi, prendendo le distanze da tutto il marciume che sta in superficie. Ancora una volta Scimone ci dimostra, con il suo talento e la sua drammaturgia, la grandezza del teatro nel riuscire a toccare temi difficili in modo leggero, con un pizzico di ironia che non guasta mai.

Visti durante la rassegna “L’Universo teatrale di Scimone e Sframeli”

Palacongressi di Taormina (Messina)

Dal 18 al 31 luglio 2014

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