BUTI (Pisa) – Danio Manfredini rientra nel novero dei registi/interpreti – quali l’indimenticabile Carmelo Bene – che dominano la scena e costruiscono ogni spettacolo su di una matrice inconfondibile. In questo caso, partendo da una riflessione personale sul mestiere dell’attore, Danio cuce una serie di pezzi brevi, quali il racconto che Nina fa a Konstantin della sua vita grama e girovaga da attrice (Il gabbiano) a quello del mattatore sul viale del tramonto, Vasilij, che rammenta i giorni di gloria recitando per l’ultima volta i suoi cavalli di battaglia di fronte al vecchio suggeritore, Nikita (Il canto del cigno) – entrambi da Anton Čechov. Passando dal malinconico al graffiante, ecco un godibilissimo sketch da Servo di scena di Ron Harwood, dove Manfredini interpreta un Sir Roland che rimanda ai teatranti – reali o meno – morti sul palco, da Molière (che è colto da malore durante una replica de Il malato immaginario) a Calvero (il personaggio interpretato da Chaplin in Luci della ribalta). Accanto a lui, però, nel ruolo di Norman, non un servo di scena bensì una figura decisamente in stile Fassbinder, di trans/amante (ottimamente interpretata da Vincenzo Del Prete) che si lega per gusto e genere al personaggio di Erwin/Elvira (agita da Manfredini) di Un anno con 13 lune – dell’autore e regista tedesco – che Danio propone nel momento dell’abbandono, quando Anton, come fanno spesso i falliti, accusa la donna di avergli fatto abbandonare una brillante carriera d’attore.
E, ancora, da notare l’incipit malinconico, che si giova del magnifico ritratto di Minetti (di Thomas Bernhard), dove l’artista ormai vecchio, che da trent’anni spera di tornare sul palcoscenico, racconta di esercitarsi al ruolo di Lear nella soffitta della sorella (ogni 13 del mese). Chicca imperdibile quel biascicare insensato del vecchio che, nella sua genialità da alzheimer, costruisce un’opera d’arte – quasi un ready-made alla Duchamp – con quattro sedie, una parrucca e un ventaglio.
Manfredini e Del Prete si giostrano tra i registri più disparati, dal tragico al grottesco, dal comico al kitsch, intercalando gli sketch con monologhi tanto celebri da rendere necessaria una messinscena straniata per non cadere nel cliché. Per fare un esempio, Essere o non essere è interpretato da un Manfredini che corre, mentre cerca di liberarsi gli occhi dal cappuccio che gli ricade sulla fronte.
Vocazione, quindi, racconta le angosce e le frivolezze del protagonista ma anche dell’attore in generale – in quanto tipo – e lo fa con una buona dose di autoironia. A differenza di Corrado D’Elia che, nel 2011, in Don Chisciotte esaltava il mestiere dell’attore paragonandolo al famoso personaggio di Cervantes che combatte i mulini a vento per continuare a esercitare la propria arte, Danio ridicolizza l’ego smisurato di colui che vuole per sé i riflettori e ne mette a nudo le pochezze e le paure – a volte con amarezza, talaltra con affettuosa malinconia.
Se si tralascia il fatto che lo spettacolo ha in sé qualcosa di elitario, in quanto non è facile risalire alle fonti del testo (ma di questo si può anche fare a meno e godersi il risultato finale a se stante), l’unica pecca è forse un certo slegato che, a volte, inceppa il meccanismo, e qualche pezzo del quale sfugge il senso all’interno dell’opera complessiva.
(Ha collaborato Luciano Uggè )
Visto al Teatro Francesco di Bartolo di Buti (Pisa) sabato 1 novembre
Danio Manfredini in:
Vocazione
ideazione e regia Danio Manfredini
con Vincenzo Del Prete
progetto musicale Danio Manfredini, Cristina Pavarotti e Massimo Neri
produzione La Corte Ospitale