BOLZANO – L’aula della Libera Università di Bolzano ha ospitato l’incontro organizzato dal Centro per la Pace nell’ambito del ciclo “Le giornate della cooperazione” sotto una fascinosa lavagna di formule matematiche, assi cartesiani e grafici a curva; una serata in cui persiano, inglese, tedesco e italiano si sono intrecciati in un continuum scorrevole di sorprendenti suggestioni nel ricordo di Forugh Farrokhzad, poetessa iraniana ribelle morta a Teheran nel 1967, scandalosa per l’Iran di allora come, e forse di più, per quello di oggi che continua a censurarla. In presenza dal figlio adottivo Hossein Mansouri, le immagini del film “Mond Sonne Blume Spiel: ein wahres Märchen” hanno narrato una storia difficile e prodigiosa, in cui tra caso e necessità la vita della giovane poetessa, cineasta e donna di cultura e quella del piccolo ospite di uno sperduto lebbrosario si sono incontrate e legate per sempre. Travalicando anche la morte prematura di lei.
La necessità è “The House is Black”, il film/documentario girato da Forugh Farrokhzad agli inizi degli anni sessanta nel villaggio degli ultimi tra gli ultimi, i lebbrosi, che racconta con inquadrature senza sconti su mutilazioni e deformità, che non siamo abituati a vedere, inquadrature che si fanno ritratti trasmettendo al di là di tutto intensità, bellezza e vita. Le immagini in bianco e nero riprendono una classe di ragazzini: il maestro chiede di dire davanti alla cinepresa tre cose brutte e quattro cose belle. Le tre cose brutte risultano essere mani, piedi, occhi, le quattro cose belle sono enunciate da quello che scopriamo essere Hossein: luna, sole, fiore, gioco. E questo è il caso. Un ragazzino, che con i genitori lebbrosi e le sorelle è arrivato da poco, proveniente da un altro lebbrosario, che avrebbe potuto non essere in quel “qui e ora”, che avrebbe potuto non rispondere, non essere colto dall’occhio cinematografico e da quello di Forugh. Invece Hossein risponde con quattro parole semplici e meravigliose, e lo fa con un sorriso disarmante, senza capire che quell’istante, un appuntamento al quale era arrivato attraverso una serie di incredibili coincidenze, stava cambiando per sempre la sua vita, il suo mondo, perché Forugh lo avrebbe portato con sé.
Le immagini del documentario in bianco e nero e quelle a colori cominciano a intrecciarsi, tra l’Iran e la Germania, tra Teheran e Monaco di Baviera, dove Hossein vive da rifugiato politico. Poeta, artista, traduttore, è un uomo inquieto, segnato dal suo destino inesorabile di caso e necessità, di separazioni, destino che sfida con coraggio, cercando radici perdute e coltivando memorie, rifugiato di nazionalità mista, con un passaporto che gli consente di andare dappertutto ma non di tornare a casa in Iran. “Noi non sappiamo cosa ci riserva il destino. La certezza non è necessaria”, dice. Ma il suo dire va oltre le parole, è concretezza di vita. E studio in Google Maps e sulle planimetrie di Teheran cercando quel vicolo dove aveva vissuto, e nello stesso tempo ricerca di quel sentiero che lega i cuori, che affratella oltre i legami di sangue
Hossein è il bambino adottato che perde la sua famiglia trovando una famiglia nuova, e che dopo pochi anni perde anche quella madre adottiva incantevole e intensa, icona bohémienne di una cultura sospesa tra moschee e cabaret, tra asini e automobili, tra minigonne e chador, tra cultura musulmana e occidentale, tra XIV e XX secolo. Hossein questa madre/fata la perde ma la aspetta, per poi capire che non deve aspettarla, perché è lì, è vicina, e lui la porta e la porterà per sempre con sé.
Tubino nero, occhi truccati, sigaretta, penna spregiudicata che si prende la libertà di raccontare le proprie passioni tra peccato e pudore, i propri sperdimenti, le proprie malinconie, vivendo con coerenza una vita di scelte non facili, affrontando la spietatezza di giudizi morali che oggi sono diventati pericolo di vita.
Forugh resta sempre giovane, come coloro che sono cari agli dei, metafora di scontri e riconciliazioni, di una cultura senza confini, di una poesia che non ha punti cardinali. E’ solo la voce che resta; la sua. Parole di poesia che hanno dato alla serata un senso magico che è andato ben oltre la lingua in cui sono state espresse, che si sono fatte musica
Mentre in Iran ci sono donne che lottano e muoiono; soltanto pochi giorni fa.
“Ascolta la mia voce lontana nella nebbia
densa dei salmi mattutini e guardami
nella quiete degli specchi
vedi come ancora con i resti delle mie mani
sfioro le profondità oscura dei sogni
e tatuo il mio cuore come una macchia sanguinea
sulle candide felicità dell’essere.”
Bolzano, Libera Università, 13 novembre 2014