MAGLIE (Lecce) – C’è bisogno di più poeti. Danilo Dolci un poeta lo era. Anche un educatore, un sociologo, un mancato architetto. Gli restava da sostenere l’ultimo esame – si sarebbe laureato – quando decise di interrompere gli studi per recarsi in Sicilia. Aveva un lavoro prima di rivoluzionare la sua vita e scuotere una terra intera, abbandonando tutto e tutti. Un lavoro stabile, a Milano. Riuscì a comprarsi anche una casa grazie a quel lavoro. In Sicilia, invece, il lavoro scarseggiava, così come l’acqua corrente, l’istruzione, l’umanità. Dolci rimase rapito da quella terra e da quella gente, volle essere uno di loro. Patire la fame, la povertà. La sua parola servì da azione, il pensiero diventò fatto.
La parola s’incarna sulle tavole di un palcoscenico, un palcoscenico del Sud, a Maglie, nella provincia Salentina. Giuseppe Semeraro, l’attore della riproposizione in teatro di narrazione delle parole e dell’impegno di Danilo Dolci, è Salentino. Non così lontano dalla Sicilia di Dolci. Dalla Sicilia che è scena universale di un Sud così uguale a se stesso da generazioni. Generazioni sconfitte, soggiogate, suddite. Per cui la criminalità sembra l’unica strada possibile alla sopravvivenza, a sopravvivere alla fame.
La parola s’incarna nella voce e nel corpo di Semeraro, diretto da Fabrizio Saccomanno, la drammaturgia di Francesco Niccolini, per una trasposizione in cui l’elemento emotivo, di coinvolgimento, è la traccia meglio affiorata dell’allestimento. Uno spettacolo di pancia, testa, sentimento. Snocciolato mediante una disposizione scenica giocata su più livelli contestuali (personaggi/ambiente), nudità scenografica, partitura ‘rurale’ o a meglio dire ‘operaia’ per vestire con maggiore aderenza il figurarsi delle identità, le storie, le genti descritte dalla penna di Dolci. La drammaturgia si fa corposa nella trasposizione, ricca di resoconti intimi e oggettivi ma contemporaneamente scarna, disarticolata, di nerbo, terragna. Così da lasciare spazio e forma alla poetica di Dolci, la poesia in carne e ossa (probabilmente con poco corpo di quanto non ne fosse caratterizzata), animo e propulsione della rivoluzione in atto.
Semeraro, in inusuale veste di attore di parola, prediligendo di consueto la mimesi silente e immaginifica nella pratica teatrale, sdoppia sé stesso, sdoppia il personaggio di Dolci e fa prendere vita e figura, alternativamente in scena, a ‘Zimbrogi’, che dalle pagine di Dolci è uno dei soggetti ad uscirne con maggiore enfasi. Personaggio, lo ‘Zimbrogi’, bandiera e corpo sociale di una popolazione intera, di un disagio intero, di una sopraffazione atavica. Corpo e voce di una terra, di un’identità collettiva. E nel dare immagine di questa identità collettiva lo spettacolo si fa robusto. Con ciò che in gergo si dice ‘di presa’, uno spettacolo che tiene gli spettatori, li prende, li coinvolge, li smuove. E poco importa se – tipico del debutto – qualche difficoltà oggettiva si nota: nella fluidità a volte smorzata di un ritmo sì dinamico – non di poco conto nel genere del teatro di narrazione – ma che sembra a volte un tantino disarticolato in soluzioni funzionali a un non sequenziale utilizzo delle scene che smembra la fruizione; nell’imperfezione del disegno luci – dovute con molta probabilità a questioni di spazio scenico – che crea ombre involontarie; nel confondersi di toni e intenzioni. Roba in risalto per occhi abituati all’analisi, poco incidenti sulla riuscita generale del trasposto. Da limare sicuramente col rodaggio dello stare in scena.
Una regia attenta a portare in superficie il sommerso, mediante l’utilizzo drammatico della metafora netta, non edulcorata in artifizi, ma lucida e di mestiere, confeziona il corpus evidenziando la firma ma non offuscando lavoro d’attore e partitura testuale. Una mano esterna a modellare qualcosa di già compiuto. Semeraro conferma la sua generosità in palcoscenico. La ‘sincerità’ nel mettere da parte il sé, e relative vanità o divismi di sorta, dando corpo e pelle a personaggio e storie. Confondendosi talvolta con la parte, lui che poeta lo è pure, avvertendo e facendo avvertire intimità e coinvolgimento nell’esporre. Restituendo schiettezza nell’ardire civile di cui lo spettacolo è atto concreto.
Ne esce un quadro malinconico ma non passivo, non vinto. Di un’idea, concretizzata realmente in opere, in azioni, in obiettivi raggiunti e impossibili anche da immaginare prima della venuta del Dolci in terra isolana. Di un sogno compiuto. Perché, come detta una enorme didascalia srotolata nel finale su un finto fondale di quinta: “Nessuno cresce se non è sognato”.
Digiunando davanti al mare
con Giuseppe Semeraro
regia di Fabrizio Saccomanno
drammaturgia di Francesco Niccolini
Produzione, Principio Attivo Teatro
Visto sul palcoscenico dell’associazione “Corte dei Miracoli” il 29/12/14 – Maglie (Le)