MILANO – “Alla meta” di Thomas Bernhard è un testo complesso, stratificato, che sembra mettere insieme parecchi aspetti apparentemente differenti: il morboso rapporto madre-figlia, il particolarissimo back ground biografico della prima e tutta quella dissertazione sul “teatro”, che, in fondo, altro non è che “una delle possibilità di resistere” – sentenzia, a chiusura del primo tempo, la madre – nell’ auto illusorio andare alla meta. Poi tutto si scioglie, nell’epilogo, quasi a ricordarci che si tratta di una commedia. Fa quasi sorridere quel: “Si salvi chi può” – titolo della pièce messa in scena con gran successo dallo scrittore di teatro e che riecheggia l’altro adagio, “Tutto è bene, quel che finisce bene”. Sembrano due massime inconciliabili e contraddittorie, ma poi forse sono solo speculari corollari di quel camaleontico “alla meta” – un po’ sprone, un po’ quasi l’inevitabilità di un qualcosa d’ intrinsecamente utopico.
La scena si apre già coi tratti specifici di questa regia di Walter Pagliaro: un’estenuante didascalicità. C’è uno spazio suddiviso su due piani, alla ribalta una poltrona rossa con una coperta buttata sopra e, dietro, lo spazio, che sarà delegato alla figlia/ancella. Qualcosa si muove, entro quella coperta – non una a caso, ma la ‘variopinta coperta per cavalli’, probabilmente, sola autentica eredità, assieme al baule di giungo, della circense famiglia di provenienza della donna di mezz’età. E’ lei stessa che si scopre – nel senso etimologico – come riemergendo da un sonno profondo e con una voce baritonale, che sembra affiorare da chissà quali meandri ancestrali. Un’ affabulazione interminabile – quasi un solo lunghissimo monologo, per un’ora e mezza. Parla dell’imponderabile aleatorietà del successo e della passione – ma poi forse anche saturazione – per il teatro.
Dice del talento dei giovani attori al confronto dei vecchi guitti. Poi sembra tornare alla realtà – complice anche l’arrivo della figlia a servirle il suo tè -: e rivela la ben più prosaica vicenda dell’aver a che fare con le maestranze a causa del ripristino del monumento funebre del marito. Tutto diventa pretesto, in questo incontenibile flusso di coscienza – agevolato dagli alcoolici – , per parlare di sé. Dice dell’incontro col marito: in fondo un’ occasione, per lei, figlia di ragazza madre e nipote di ‘fenomeni da baraccone’ – un nonno pagliaccio ed una consorte forse non proprio a caso sorda. Racconta dell’imprinting decisionista dato da lei alle acciaierie del marito – orfano di genitori, ma dotato di attività imprenditoriale e casa al mare. Rievoca il supplizio di quel matrimonio con un uomo, che le faceva ribrezzo e che le diede un figlio deforme, talmente odiato da farle accarezzare l’idea dell’infanticidio – non fosse stato per la prematura morte del piccolo. E poi di quella figlia/fantoccio, da lei vessata in ogni maniera, ma ‘incatenata’ a lei – questo, il termine che usa – a doppia mandata.
Ecco quel che succede per quasi tutto il primo tempo, entro la stereotipizzazione di una recitazione volutamente monocorde e quasi alienante, così come la ripetitività della figlia nel piegare abiti e preparare bagagli sufficienti per una transumanza. E, in effetti, è questo, il senso di quella partenza rituale per la casa al mare – “Io e te: ogni anno, da vent’anni, lo stesso giorno...” -: un andare ‘alla meta’, per poi puntualmente scoprire che non è così bello come ci si ricordava. Solo l’inevitabilità di una compulsione: come il ritmo ossessivo del Bolero – che riaffiora – o la vischiosa morbosità di quel rapporto vittima/carnefice, che infondo inchioda lei per prima, svelandone l’inconfessabile fragilità.
Anche visivamente tutto è reso per stereotipi. La madre (Micaela Esdra) ha i tratti e la lucidità persecutoria di una Crudelia Demon; e se le mancano i picchi umorali e la vivacità della ‘cattiva’ disneyana, fors’è solo perché la scelta di fondo è pro mono-tonia – facendo buon gioco nel costruire il suo personaggio di delirante alienata. Illuminante è l’episodio della sua nascita: la madre che la partorisce nei bagni pubblici di un locale, poi, la infagotta e va a dormire da un’amica: grottesco. Anche la figlia (Rita Abela) sembra rubata a quello stesso immaginario: un goffo Quasimodo silente, sottomesso ed infagottato in curiosi cenci viola. Come il protagonista di “Notre Dame”, solo di rado ha l’ardire di alzare la testa – ma per poi dolorosamente tornare ad abbassarla, meno che ‘vittima’. E’ la madre, infatti, che le chiede d’inginocchiarsi ai suoi piedi ed ancora lei che la scaccia – “non sopporto di vederti in ginocchio, ma non posso farne a meno”. E’ lei che le regala il prezioso gioiello, sfilandoselo dal dito, poco dopo averle ricordato: “Mi sono abituata a te… mortalmente...”.
E’ così che il secondo atto registicamente si trasforma in una potenziale partita a scacchi. Un gioco di diagonali sceniche e spostamenti strategici fra la madre – in bilico fra la seduttività di chi è disposta ad adulare pur di non perdere il primato e l’aplombe di chi sa di fare la parte del leone – e lo scrittore di teatro (Diego Florio), dal volto smunto e dal pallore cinereo, a sua volta figurino dell’ intellettuale nell’immaginario collaudato. Quel che si contengono è la ‘figlia’ – sintomatico nessuno dei personaggi sembra avere un proprio nome di battesimo, in fondo una reale identità. Così teme la madre, ma poi il discorso scivola sulla ‘giacca’, sorta di kantiana forma a priori, che ciascuno sembra buttare addosso al mondo nel tentativo di dare una parvenza nuova al “tutto (che) oramai è stato scritto”. Siamo alla teoresi (drammaturgica) pura – ed è qui, che tutto acquista sostanza.
Se, infatti, nella stanchezza per questo divertissement si era chiosato che “il teatro, infondo, è solo una delle possibilità di resistere”, ora, in questo finalmente rianimato finale di partita, ci si ricorda della rivoluzione. “Nei giorni di pioggia non bisogna restare a letto…”, insinua, la madre, in un’atmosfera, che improvvisamente sembra riappropriarsi delle proprie radici folli ed irrimediabilmente circensi. “Bisogna fare la rivoluzione. Prima la nostra piccola rivoluzione di uomini di teatro… poi una più grande… e poi dalla nostra testa mettere al mondo la rivoluzione come si mette al mondo un bambino e far esplodere tutto”. E’ questo che li emenda tutti: il marito, che sembrava insignificante e taciturno, ma che in silenzio progettava di far saltare in aria il palazzo reale; il drammaturgo, che indietreggia nel buio, al sentir queste parole, ma che poi sappiamo sarebbe rimasto per ben più dei pochi giorni di quell’invito al mare; lei stessa, che sembra finalmente scrollarsi da quell’auto referenzialità morbosa.
E dopo oltre due ore di spettacolo, soltanto ora si ha finalmente la percezione che si tratti di una commedia.
Allora: certo bravi, gli attori – specie la Esdra, per la tenitura senza sbavature –, per questa performance volutamente in prima; e chiaro e coerente, il disegno registico sotteso. Però vien da pensare che una restituzione forse meno monocorde, avrebbe sostenuto il pubblico nell’orientarsi in questo già di per sé complicata drammaturgia.
Visto al Teatro Franco Parenti di Milano il 21 febbraio 2015