Ci sono dei saggi che risultano pregevoli non solo per l’intrinseco valore delle tesi esposte o delle argomentazioni apportate a un dibattito scientifico e/o disciplinare, ma per la capacità di catturare l’attenzione del lettore con una scrittura che, pur essendo consapevolmente complessa, non rinuncia mai ad essere perspicace. È il caso di “Follia e disciplina” il saggio dello studioso palermitano Roberto Giambrone, recentemente pubblicato per i tipi di Mimesis edizioni. L’argomento del saggio appare espresso da subito e con chiarezza: si tratta del percorso di trasformazione e di trasferimento del fenomeno dell’isteria femminile, studiato per la prima volta e “messo in scena” dal famoso neurologo Jean-Martin Charcot nell’ ospedale della Salpètriere di Parigi nella seconda metà dell’ottocento, in una pathosformel, un archetipo, che sta alla base di molte (se non proprio di tutte) tra le più importanti espressioni della danza e del teatrodanza occidentali novecenteschi; una vera e propria «epidemia».
Per volgere tuttavia questa ipotesi di ricerca in una tesi che potesse avere reale solidità scientifica, occorreva non soltanto mettere in fila tutti quegli episodi della storia della danza e del teatro che con questo archetipo formale potessero avere attinenza (da Isadora Duncan in poi), ma esser in grado di fare un lavoro di vera e propria archeologia culturale, cosa che è davvero raro trovare in saggi del genere. Giambrone, studioso e critico militante di teatro e danza, riesce felicemente in questo intento, mettendo a frutto non solo le sollecitazioni che gli provengono da una vastissima biblioteca (da Ippocrate a Paracelso, dalle ninfe di Aby Warburg alle baccanti di Erik Dodds, dai classici della psicologia moderna e della teoria della danza e del teatro al pensiero filosofico Giorgio Agamben, da Heinrich von Kleist a Foucault, solo per fare qualche esempio), ma anche riflessioni che possono sorgere, sedimentarsi e diventare euristicamente feconde soltanto nel contesto di una intensa attività di osservatore e di critico militante.
Riflessioni che convergono nella focalizzazione di quella dura e lacerante dialettica tra follia (il mistero doloroso dell’isteria) e formalizzazione disciplinante di essa che è restata viva e che sembra stare al cuore del pensiero teatrale di Artaud, del rivoluzionario linguaggio artistico di Pina Bausch, delle grandi esperienze di Jan Fabre e di Alain Platel e, scendendo per li rami, di molte altre esperienze coreografiche e teatrali, italiane e internazionali che Giambrone è in grado di citare nel loro esatto peso specifico artistico.
Bellissima, per concludere, la metafora del funambolo che l’autore, traendola da Artaud, usa per illustrare con esattezza il rilievo e il senso profondo di questa dialettica: «Il funambolo, in effetti, è un particolare tipo di performer che non simula vestendo i panni di un personaggio o interpretando pensieri, parole e gesti altri. Egli se ne sta sospeso su un filo, appeso tra la vita e la morte, non potendo far altro che sintonizzarsi in quel preciso punto di equilibrio al di qua o al di là del quale cascherebbe irrimediabilmente nel vuoto. Il funambolo appare, dunque, come il performer perfetto, l’unico che non è costretto a mentire, riuscendo a trovare nel proprio equilibrio quella verità così affannosamente ricercata dai teorici e dai maestri della scena novecentesca».
Roberto Giambrone, Follia e disciplina, Mimesis Edizioni, 2014, Milano – Udine.