MILANO – “Fuckme(n)”, in scena al Teatro Out Off di Milano, dal 10 al 15 marzo, è un testo composito. Intanto perché, pur nato da una commissione unica – di Renata Ciaravino, compagnia Dionisi/Festival Mixité -, va a chiamare a raccolta tre drammaturghi distinti. Sono Massimo Sgorbani, Giampaolo Spinato e Roberto Traverso, a cui vien chiesto di declinare una propria idea della “Maschilità eterosessuale, quella integrata, quella positiva, riconosciuta come bene, potente […]”. Così spiega, la Ciaravino, l’esigenza d’integrare tutto quel parlar al femminile – omosessuale e non; abusato e non; speso nella dimensione della maternità, piuttosto che in quella dell’impegno civile, politico o della passione comunque muliebre -, visto fino a qui nelle quattro edizioni del festival. Come se il maschile ‘convenzionale’ non avesse diritto di cittadinanza, in quel mondo; come se – soprattutto – non ne fosse anch’esso legittimo frequentatore – a suo modo ugualmente portatore di sacche di vissuti e fragilità.
Nascono così, le tre storie – “Il professore animale” di Spinato, “Tracce mnestiche di un padre di famiglia” di Sgorbani e “Sunshine” di Traverso.
Minimo comune denominatore il desiderio di andar a svelare quel che si agita dietro all’apparente indifendibilità dei tre prototipi virili: l’accademico erotomane, il padre fanatico di box e il genitore in carriera, tragicamente dimentico del figlioletto in automobile. In fondo solo tre variazioni attorno a quelle dinamiche di ‘potere’ – sia nelle relazioni professionali, che in quelle familiari o di coppia -, che sono il reale benché occulto oggetto del contendere. Ma minimo comune denominatore è anche quella medesima capacità di lasciar affiorare questi uomini in tutta la loro complessa umanità – tanto da farli scolorare da carnefice a vittima e viceversa, da accusatore ad accusato e poi ancora reo confesso, pentito e prefica del proprio delitto.
In scena il tutto viene mirabilmente incarnato da un Alex Cedron dalla dizione forse un poco accellerata, ma dalla fisicità e mimica senz’altro capace di modulare in modo assolutamente credibile i diversi stati emotivi, gli sbalzi, i cambi di ritmo, umore ed intenzione dei differenti personaggi – dando voce a uomini quanto mai instabili pur nella diversità delle farneticazioni. Tutto ruota attorno ad un’immensa macchina scenica. E’ la struttura metallica di un enorme cubo, che – lontana suggestione di Rubik -, puntualmente viene capovolto per tornare ad essere, ogni volta, gabbia, tana, cerchio magico, entro cui il protagonista di turno si gingilla; e quando ne esce, è solo per pronunciare quelle battute, che lo costringono di fronte alla realtà. Interessante, in tal senso, l’utilizzo degli spazi specie nel monologo di Sgorbani. Qui Cedron si sdoppia: e se non esce mai dal suo ring ideale finché resta quel padre affabulatore, che semplicemente sembra raccontare della grande epopea dei tre incontri che segnarono la storia del pugilato, come figlio adulto di quello stesso padre, al contrario, non vi entra mai. Se lo gioca nello stretto corridoio a bordo proscenio, il suo match personale: il gioco-di-forza con la moglie. Poi, a sua volta padre, è in quella stessa cattedrale di delirio, però, che attira il pargoletto per confortarlo per la bravata commessa ai danni del compagno di scuola.
Il cerchio si chiude: nonostante l’accento più volte posto dal padre su un linguaggio che non deve essere volgare, nonostante un modo di relazionarsi al bambino ostentatamente adeguato alla sua giovane età, nonostante l’evidente sforzo del genitore di assumere un punto di vista in qualche modo edificante e politically correct, il sotto testo va in direzione ostinata e contraria; e l’azione – reale insegnamento di quella di fatto educazione sentimentale – non disattende il farneticante modello. Sesso e violenza si confondono, poi, per un sinistro gioco di pruderistica sovrapposizione adolescenziale.
E similmente negli altri due. E’ un lunghissimo flusso di coscienza, il monologo firmato Spinato; un clinamen in crescendo, in cui il ‘Professore Animale‘ scivola dalla narcisistica confessione delle proprie performances con le sue ‘bambine’ – così chiama le studentesse, a cui chiede prestazioni sessuali in cambio di favori legati alla carriera accademica – ad un rancoroso “J’accuse”. Coinvolge tutto e tutti: dalla stessa seduttività manipolatoria delle ragazze alla connivenza di genitori troppo egoisti per riuscire ad interessarsi davvero a loro. E se le fasi del borioso autocompiacimento, se le gioca nella cattedrale del suo potere, il racconto, poi, lo chiama fuori – stanandolo da quella scorza di apparente rispettabilità, che è solo connivenza, ma poi anche calunnia e maldicenza. E quando alla fine è costretto a calar la maschera – con se stesso, quanto meno – eccolo lì: fuori dalla sua torre eburnea, dentro ai (ri)morsi di una coscienza, che lo dilania, schiumandogli la bocca.
Efficace anche la scelta registica di mostrare questo prototipo di uomo mentre cedere le armi in progressione. Gradualmente si spoglia: prima del vestito del docente rispettabile per restare in un’ideale mise da boxeur e poi ancora solo in boxer. Quasi un: “Oramai sono in mutande...”, laconica, inemendabile resa dell’involontario infanticida del monologo di Traverso. Un pezzo di carne da macello, alla fine: ecco cos’è questo (Fuck)men – fulminante, il suo spenzolare avvolto da una pietosa penombra.
La scenografia essenziale – solo altro oggetto scenico è una bacinella piena d’acqua, con cui sembra volersi ripulire il volto, l’attore, nel passaggio da un personaggio all’altro -, i pochi e misurati interventi di musica/rumoristica e le luci – soprattutto: nell’essenzialità di pennellate di verdi livori, soffocanti arancioni o elettrici blu, ad incorniciare, questi ultimi, un quadretto di apparente e reiterata normalità – sono gli altri ingredienti, con cui il regista Carlo Compare gioca, qui, a costruire il suo meccanismo di distrazione: di quel che sembra, questo stereotipo di maschio vincente, ma forse in fondo non è.
Visto al Teatro Out Off di Milano l’11 marzo 2015