PRATO – La serra è un testo teatrale di Harold Pinter, scritto nel 1958 ma tenuto nascosto nel cassetto fino al 1980 dopo l’accoglienza poco calorosa di un precedente testo, Il compleanno. Dai toni marcati e noir, la pièce è ambientata all’interno di un ospedale psichiatrico di vecchia generazione, in cui pazienti invisibili sono sottoposti non alle cure ma alle violenze passate sotto silenzio dei capi dirigenti e del personale sanitario. Una stanza acquario insonorizzata e sopraelevata domina al centro del palcoscenico. Per raggiungerla ci sono soltanto delle scalette ad un lato. In quella stanza viene deciso tutto quello che riguarda le sorti dell’istituto psichiatrico, in cui è ambientata l’azione. Tutti i direttori dell’istituto, compreso il Sig. Roote (Mauro Malinverno), hanno frequentato quell’ufficio, luogo in cui viene esercitato il potere, compreso quello di vita e di morte sui pazienti dell’istituto. Il potere logora chi non lo possiede, chi è esautorato dal privilegio di entrare nella stanza dei bottoni, volutamente simmetrica rispetto agli altri elementi scenici, che contribuiscono a creare una scenografia fredda e metallica, a supporto della scelta registica di Marco Plini di spersonalizzare l’ambiente.
Nonostante la vicenda si svolga durante la giornata di Natale, l’atmosfera natalizia è impercettibile non fosse per l’improvvisata apparizione di un addetto del personale sanitario (Francesco Borchi), che rompe il grigio e la tensione della stanza annunciando il discorso ufficiale del Sig. Roote. Anche del luogo non sono chiare le coordinate, non si sa infatti di quale istituto si tratti finché Lush (Fabio Mascagni) chiarisce che tutto si svolge dentro una casa di riposo. Oltre ai colori e alla scena, a creare senso di alienazione è anche il regolamento interno dell’istituto, voluto dal predecessore del Sig. Roote e mai modificato, secondo il quale i pazienti non sono identificati con il proprio nome – etica che concilierebbe il valore della persona con la finalità terapeutica – ma con dei numeri ma con una serie numerica. Di loro non è dato sapere niente, non compaiono mai in scena e il ritratto fisico e psicologico che ne viene fatto è costruito sulla base di continue contraddizioni.
La volontà di Roote di mantenere inalterato l’ordine dell’istituto, nel continuo presentimento di una catastrofe che potrebbe intervenire a turbarlo, viene vanificata da un doppio giallo, la morte del paziente 6457 e la gravidanza della paziente 6459. A scoprire il giallo è non caso Gibbs (Luca Mammoli), segretario di Roote, che conduce il gioco a modo suo scagliando prima la colpa su Lamb (Giusto Cucchiarini, efficace nella scena dell’elettroshock), l’ addetto alle serrature, e poi manipolando, come tanti burattini nelle sue mani, i personaggi e le loro debolezze. Tutto sembra ruotare intorno a Roote, ma in realtà a manovrare i fili è Gibbs, che logorato dall’assenza di potere riesce ad ottenerlo agendo sull’isteria del suo capo che si manifesta in tutta la bravura di Malinverno nei movimenti schizofrenici del corpo, sull’impulsività di Lush e sull’insicurezza della Sig.na Cutts (Valentina Banci), unica donna del personale sanitario ossessionata dalla conferma della sua femminilità.
Nel finale sembra che l’inquietudine accumulata si risolva con l’insurrezione dei pazienti contro il personale sanitario per la vendetta del 6457 e della 6459. Sembra, ma in realtà non è così. Il giallo diventa noir e Pinter getta l’illusione del riscatto delle vittime sui carnefici. Ma nessuna vittima viene alla fine vendicata, nell’istituto in cui viene praticato l’elettroshock con metodi intimidatori finalizzati a far dire al paziente cose che non pensa, niente cambierà. Niente, tranne il vertice dirigenziale destinato a rinnovarsi ciclicamente. Niente, tranne la normalità che nell’intenzione di Pinter, a volte è più malata della malattia stessa.
Visto al teatro Metastasio di Prato il 12 febbraio 2015