MILANO – In scena al Teatro Sala Fontana di Milano dal 12 al 29 marzo, “Le intellettuali” di Molière nell’adattamento registico di Monica Conti gioca su alcune linee di lettura principali. Anzi tutto la mancanza di veri e propri protagonisti – meglio, ciascuno lo è, a turno, nello snocciolarsi di scene ed eventi, capaci di mettere l’accento ora su questo ora su quel personaggio, mantenendosi fedele alla tesi della coralità. E, connesso a questo, quello del potere – inteso, anch’esso in senso trasversale e partecipativo, in modo tale che non ci sia un’autorità conclamata o superiore ad un’ altra. Ognuno esercita una propria potestà e ciascuna ha qualcosa da avanzare, insegnare e rivendicare, in un duellare ininterrotto, in cui le fazioni si compongono, scompongono e ricostituiscono nell’andamento godibile di un minuetto farsesco.
Queste, le intenzioni dichiarate nelle note di regia e che puntualmente trovano conferma sul palco, dove non si inseguono analisi psicologiche o sottili disamine sociologiche o moraleggianti. Non c’è una vera e propria satira, in questo simil pamphlet, ma soltanto il tratteggio ironico e divertito di un’umanità cristallizzata in tipi, senza per questo perdere il brio e la rotondità di personaggi ben designati. Un po’ alla “Molto rumore per nulla”, nei toni – anche se è privo, qui, quell’elemento tragicomico, presente invece nell’antecedente shakesperiano. La commedia del drammaturgo francese, in compenso, pur posteriore di quasi cent’anni, era scritta in versi: e questa nota caratterizzante, in scena, viene resa attraverso il lavoro vocale degli attori.
Il parlato è sciolto in prosa, ma l’agilità timbrica, l’uso sapiente del farsetto, il distendersi o contrarsi di ritmi e volumi vocali ne restituiscono la suggestione musicale. Ammaliante, in tal senso, la performance di Federica Fabiani, ad esempio, nell’interpretare la vecchia zia zitella. Ora freme e si fa piccola, quasi, nel gorgheggio – quando si vede oggetto di esilaranti amori inesistenti -, ora riacquisisce su di sé tutto il peso della seria donna del suo rango. La voce si fa plumbea ed il ritmo rallenta; ma è solo un attimo: ed eccola ritornare al cinguettio dell’acerba fanciullina a sdilinquirsi di fronte alle pompose allocuzioni del magniloquente poetastro Trissottani. E lui stesso, interpretato da un accattivante Roberto Trifirò, talmente trasfigurato – nella parte – da risultare quasi irriconoscibile, modula, alterna, volutamente incespica, glissa a colmare l’intera estensione delle modalità del vanesio ciarlatano. Non da meno gli altri. La servetta Martina – interpretata dalla stessa regista -, ha tutta la foga e la credibilità un po’ rude di chi forse non possiede le parole giuste per esprimersi – questa, la colpa per cui viene allontanata -, ma certo non deficita di quella saggezza schietta e genuina, che i brusco utilizzo del dialetto amplifica, facendocelo giungere in tutta la sua portata.
Crisalo – Miro Landoni – ci vien restituito con tutta la tentennante (im)potenza di certi personaggi di Govi – sempre in bilico fra un tacere, per amor di pace ed un voler invece dire, per amor di verità, oltre che per rivendicare il ruolo di padrone di casa. Le altre due ‘intellettuali’ – Filaminta/Maria Ariis, la padrona di casa e la primogenita Armanda/Angelica Leo -, così come anche Enrichetta – Carlotta Viscovo, la figlia minore – tengon tenzone: le due sorelle, fin dalla prima scena, a duellare sulla ‘natura’ del loro essere – intellettuale, la prima, sulla scia dell’esempio materno, votata all’amore, l’altra, che guarda con infastidito contegno tutto quell’affannarsi attorno alla cultura o pretesa tale. C’è un sottile gioco di triangolature, in tutto ciò. Diagonali, schematismi e schemi sono linee di lettura, che la regista ben restituisce in scena attraverso una prossemica scandita nell’ortogonalità di orizzontale – la dimensione della quotidianità – e verticale – la scala d’ingresso, a centro palco, che idealmente prosegue nella passatoia scarlatta fin giù in platea. E’ da qui, che fanno la loro entrata trionfale i tronfi; è su questa, che si ricomporrà il qui sì sarcastico gioco del tutto per bene.
E intanto il fracasso del tutto contro tutti: le due sorelle, lo si accennava, a contendersi, in fondo l’amore di Clitandro/Marco Cacciola, ad interpretar con maniera godibile un figurino esile e stizzito: fantoccio innamorato e respinto da Armanda e poi promesso speso per ripicca di Enrichetta; ma anche sfidante, in davvero singolar tenzone, del poetastro Trissottani. Ultimo, ma non ultimo, all’appello, lo zio Aristo, Stefano Braschi, il cui ruolo di regia ne fa una sorta di ‘coro’: del pensiero dell’autore, probabilmente – sulla vacuità del nomen ‘cultura’ -, ma anche di quello della regista. Sottolineando ed accentuando le dinamiche di potere, infatti, altro non fa che esplicitarne la vana e risibile capricciosità. L’uso dei costumi – le quattro donne sono vestite in un’apparentemente identica maniera -, i colori – eppure Enrichetta sfoggia una nuance più tenue; o ancora: tutto è giocato nei toni del grigio, eccetto quei dettagli vermiglio che accendono gli abiti di coloro che dal tanfo stantio di questa pseudo cultura sono immuni -, i movimenti scenici – danzati, quasi, ma dalle leggibilità immediata nei gruppi simil pittorici e nelle posizioni ed orientamenti nello spazio dichiarati – accompagnano il pubblico ad una visione guidata, lasciandolo per ciò stesso libero di godersi i sagaci rimpalli delle querelles fra i contendenti o i preziosi cammei di questi personaggi a turno protagonisti della scena e comparse di una vicenda, che incuriosisce e diverte proprio nella misura, in cui sembra far tanto rumore – in fondo – per nulla.