MILANO – E’ un progetto ardito, a ben pensarci, la messa in scena di “Ramayana” di Roberto Rustioni, che ai Teatri del Sacro propone un lavoro quanto mai pertinente, ma anche meravigliosamente sfidante – anni luce lontano dalla nostra tradizione culturale.
In fondo l’idea c’è: cosa di più adatto che un testo sacro? E quale forma migliore se non quella della drammatizzazione? Nasce infatti così (da sempre) il teatro. Perché una modalità quanto mai concreta – oltre che emotivamente empatica e, spesso, partecipativa – di mostrare in quel corpo e sangue, che tutti comprendono, convincimenti e credo, ma più spesso usi e costumi – e precetti e disposizioni normative – a regolare l’inevitabile eppure precaria convivenza sociale. Così l’eroe altro non è che colui che incarna un prototipo, il santo, il giusto e l’arguto o per converso, il malvagio, che puntualmente la morale della favola punisce, nel calmierare lo strapotere dei tracotanti, favorendo invece quelle virtù di tolleranza, giustizia e sopportazione, tanto indispensabili all’umano convivio. E’ questo che fa l’epos, sempre e comunque in ogni cultura attinge ai prototipi comportamentali utili all’efficace funzionamento del gruppo. Il solipsismo è un fenomeno antropologico e culturale recentissimo; prima vigeva la ragione del branco, sopravvissuta fino alle logiche delle ideologie e, oggi, forse, di nuovo in parziale via di riesumazione, nelle dinamiche del fare rete.
“Ramayana” di Roberto Rustioni visto a “Da Vicino Nessuno è Normale” – festival di teatro estivo milanese, giunto alla sua diciannovesima edizione. Ed è incredibile quanto lo spazio e il tempo poco contano, siano assolutamente identici, nella sostanza, i paradigmi ancestrali nelle diverse culture.
Rāma, il protagonista di questo che è uno dei massimi tasti sacri dell’induismo, sfoggia tratti comuni incredibilmente analoghi non solo a quelli di qualsivoglia ‘eroe’ della cultura occidentale, dal principe delle favole a quel Gesù di Narzeth, a cui molti guardano solo come ad un modello di virtù. Ci sono dettagli, nella sua saga, sorprendentemente simili anche nelle gesta. Come non trasalire di fronte al fatto che il rampollo, innamoratosi di una bellissima fanciulla vista ad un balcone , Sita, il suo nome, ma la vampa dell’innamoramento fra i due ci fa pensare che si possa chiamare anche Giulietta , debba superare la prova di tendere un arco notoriamente indomabile? E Ulisse ed Enea per altro aspetto o anche Ofeo, ritorna pure nella calata agli inferi di Rāvana, il demone per sconfiggere il quale Visnu si è incarnato nell’avatar di Rāma. E se gli eroi greci nella catabasi cercavano risposte o di portare indietro un amore al cui lutto non erano riusciti a rassegnarsi, qui il perfido demone scende per riesumare uno zio-zombie, che trasforma in un cervo d’oro, straordinario espediente per adescare la bella, ingenua e qui capricciosa Sita.
La bellezza insieme al demone della collera ma anche la tracotanza e la punizione dell’arrogante, sono i tratti, su cui continuamente indugia la riflessione della pièce. “Specchio specchio delle mie brame…”, in fondo non è poi così distante, ed è di una poeticità quasi struggente, che lo specchio con cui si trova a dover fare i conti il re, nel momento di abdicare, sia reso da quattro legnetti legati insieme, quasi a suggerire che l’autoconsapevolezza viene prima dell’immagine riflessa. E non è a caso che, dopo un incipit dalla suggestione ortodossa – i sette attori seduti a terra in posizione raccolta, che, in semicerchio, intonano pervasivi mantra dalla sonorità tibetana, l’azione scenica evolve puntando direttamente al cuore. La collera quella che Lakshmana, fratello e compagno fedele del protagonista, non sa dominare e la bellezza, quella della moglie favorita del re e poi pure quella di Sita. Per entrambe elemento di fortuna nel farle prescelte, entrambe involontario strumento di rovina dei rispettivi consorti. Ricorre come una costante un’ossessione, un mantra, il tema della Bellezza, ora sinonimo di candida purezza, ora arma micidiale, a saperla adoperare o stigma di sciocca disarmante vanità. E’ la già citata avvenenza delle due donne, ma anche la deformità da quella dell’ancella che tramuta il candore della regina in freddo fascino manipolatorio, fino alle mutilazioni inflitte da Laksmana alla perfida diavolessa Śūrpnakhā. Sarà lei che, mutilata in battaglia, di naso, orecchie e seni, manifesterà finalmente la sua bruttura anzi tutto interiore, reclamando la feroce vendetta di Rāmayana, contro Rāma, che l’aveva respinta.
Si conclude qui col demone che rapisce Sita, la narrazione di Rustioni. Siamo solo al terzo kanda, libro dei sette, che compongono la saga. Il regista aveva spiegato: “… si tratta di un primo studio, un esperimento“. Quello che si esplicita sulla scena è un tentativo di trasposizione, mixa l’essenzialità del teatro sperimentale occidentale, una recitazione dai toni realistici, se non proprio accademici, lo spazio vuoto, la scelta di pochi oggetti dalla simbologia schietta. Lo specchio o la katana, inconfondibile strumento di furore e collera, un tentativo di inclusione di alcuni topos di gusto orientale. Sono i canti suggestivi, multi tonali e col loro fascino ipnotico e ossessivo, pur nelle varianti di sonorità, che non ci appartengono. Sono le coreografie pulite e sincroniche, che ora ricordano le dimostrazioni compatte di certe arti marziali, ora i movimenti amplificati, nella ripetizione degli attori capaci di incarnare il concetto di eccezionalità di chi li compie. Così la danza d’innamoramento/avvicinamento fra Rama e Sita, incarnazioni di Visnu e Narayani, sposati pure nel loro pantheon. “Da poco tempo lasciatisi e non riconosciuti”, Rustioni moltiplica per tre i gesti della coreografia, intuendo, nella ripetizione dei movimenti, non solo la partecipazione della corte, stante il loro rango sociale, ma la ‘trinità’ che è tipica del sacro.
I giovani attori provenienti dalle maggiori accademie Paolo Grassi e Piccolo di Milano, Genova, Silvio D’Amico, si offrono con generosità ma anche con una sostanziale acerbità emozionale, a cui hanno cercato di supplire con differenti modalità di compensazione: dall’ostentato ‘distacco’ di Loris Fabiani/Rama, che non è ‘imperturbabilità’, alle performance degli altri attori maschili. Il più convincente Jacopo Crovella/Laksmana e poi Gabriele Portoghese/Ravāna e Antonio Gargiulo, sempre un passo al di qua da una credibilità piena. Emanuela Caruso/matrigna di Rama, nella parte Petra Valentini/Sita e Silvia D’Amico/ diavolessa Śūrpnakhā, versatile e più credibile nella scivolare in diversi ruoli.
Una cui maggior saturazione dei personaggi, forse, avrebbe aiutato ad immergersi in quell’atmosfera, così accuratamente predisposta fin dall’inizio.
Visto mercoledì 8 luglio al Teatro “La Cucina” ex Paolo Pini a Milano