Teatro, Teatro recensione — 19/10/2015 at 20:53

Il teatro che racconta un “compromesso” con gli occhi di oggi

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MILANO – Cosa succede se si mette insieme una classe di neodiplomati – nella fattispecie quelli del corso 2014/2015 dell’Accademia dei Filodrammatici di Milano -, una giovane drammaturga come Angela Dematté e un regista del calibro di Carmelo Rifici, da qualche mese direttore della Scuola di Teatro del Piccolo di Milano oltre che di LuganoInScena?
Un cortocircuito, verrebbe da pensare. Quel che invece suggerisce, questa variegata combinazione, al duo Rifici/Dematté è più un “compromesso”. E’ questo, infatti, il titolo della drammaturgia appositamente scritta, cavalcando l’idea che alle giovani generazioni non bastino ali per spiccare il volo. Occorrono anche radici capaci di fungere da base solida per il lancio, oltre che da nocciolo duro attorno a cui da plasmare una propria identità. Così l’idea è quella di ripercorrere 100 anni di storia – la storia recente dell’Italia vissuta attraverso gli snodi delle saghe familiari di Aldo e Bepi, due commilitoni trentini nelle trincee della prima Guerra Mondiale, quando l’Italia, per la quale si stava combattendo, era forse un’identità nazionale da costruire più ancora che un baluardo da difendere.

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Eccolo, un primo compromesso: sentirsi austriaci, ma dover combattere sotto la bandiera italiana; essere cattolici, ma divider la trincea con gente d’ogni tipo, orientamento ideologico e religioso. E quando Cesare, combattente socialista, muore, trivellato dal fuoco nemico, eccole ancora le differenti declinazioni del compromesso: quello di Aldo all’insegna del “negazionismo autosalvifico”, che lo porterà a scrollarsi di dosso le brutture della guerra per gettarsi a capofitto nella carriera politica, mentre quello di Bepi sarà di assumere su di sé la responsabilità di non essere riuscito a difenderlo, tanto che in lui sembra si sia “rotto qualcosa”, dirà la fidanzata. E via così – dalla paternità spuria, ma messa a tacere in un ipocrita e borghese “tutto per bene”, alle macchinazioni politiche di un potere, che sembra aver scordato ogni aspirazione ideale; dal Compromesso Storico, con le annesse trame ed equilibrismi, all’irruzione della tv quale nuovo movente delle coscienze, fino alla particellizzazione del mondo in un individualismo dimentico della dimensione sociale e in cui il fratello diventa nemico perfino per chi persegue l’aspirazione a una convivenza pacifica, tollerante e inclusiva. Chi sfugge al compromesso? Forse solo chi esula dalle convenzioni sociali.

Il pazzo, come le storie spesso insegnano. E anche questa narrazione ha la sua pazza – Caterina, sorella minore di Lisa, moglie di Bepi, auto reclusasi in manicomio, da dove segue l’intero scorrere delle generazioni. Eppure manca, a questa figura, la forza dirompente e dissacrante, che le si sarebbe potuto più generosamente concedere al di là di quel provocatorio farla accucciare in scena per una minzione. Ma, forse, è un po’ questo il limite dell’intera scrittura drammaturgica: essersi dato come compito quello di restituire lo scheletro storico-politico degli ultimi 100 anni ed essere disposti ad immolare, a questo, qualsiasi altro punto di vista. Pochi, gli affondi nella psicologia dei personaggi; rapidissime le scene che raccontano i loro tormenti. Più spesso li si liquida con guizzi di esplosione tragica, a cui quasi mai si accompagna una maggior analisi introspettiva. Così resta un po’ tutto a fior d’acqua – a sciorinare fatti, luoghi e situazioni, ma quasi dal punto di vista di una Ragione di tipo hegeliano con l’inevitabile rischio che tutto risulti oltre modo schematico e ideologico.

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Se questo è il testo, in regia gioca a sparigliare in un sincretismo che mixa le tappe obbligate del saggio di fine corso, con affondi che pescano da più fronti: dalla lettura in scena delle didascalie, strizzando l’occhio a un certo Latella, alla rottura della quarta parete, in una quasi baruffa chiozzotta, in cui i più di sei personaggi in cerca d’autore, vogliono raccontarla direttamente al pubblico, la loro storia, per non essere dimenticati. Così si duetta col meta teatro, s’intrattengono argute boutades sui generi del cinema e del teatro contemporaneo e c’è pure il momento social, in cui ironizzare sui tempi d’attenzione del pubblico all’epoca di Facebook.

E poi le canzoni in coro – questo sì, sa molto di saggio -, scegliendole però da un repertorio alto. Modugno, Pasolini, Giovanna Marini. Ancorché neodiplomati, gli attori sono bravi e credibili, merito anche del sapiente lavoro pedagogico oltre che registico di Rifici: generosi, in alcuni casi, e spigliati come Daniele Profeta/Luigi e Giampiero Pitinzano/Alcide, ma anche Michele Basile, Camilla Violante/Olga e Alice Bignone/Sonia, che con Eleonora Cicconi, Camilla Pastorello, Alessandro Prota, Ilenia Raimo, Ermanno Rovella e Antonio Valentino completano il cast.
Bella, l’idea della scenografa e costumista Annelisa Zaccheria di ricamare sui personaggi stralci di copione. Ci restituisce sia l’indole adolescenziale, che ama ammantarsi e nascondersi dietro a slogan e scritte, sia la naivité del work-in-prgress, quasi un appunto furtivo, preso al volo per non dimenticarsene, come tutte le volte che ci si scriveva qualcosa sulla mano da ragazzini.

 
“Il compromesso” visto al Teatro Filodrammatici di Milano e in replica fino al 25 ottobre.

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